Gli album del mese: Snail Mail, Katelyn Tarver, Laila Al Habash & more

Snail Mail – Valentine
(Matador Records, 5 novembre 2021)
Tre anni dopo il fulminante album d’esordio Lush, che ha proiettato l’allora diciannovenne Lindsey Jordan nel club delle artiste indie più calde del panorama attuale, Snail Mail ci regala finalmente il follow-up sotto forma di Valentine, un disco di dieci tracce fuori -come il precedente- per l’importante etichetta Matador Records. Rispetto al predecessore, Valentine suona più sofisticato, più “artistico” se vogliamo, e anche più sussurrato dove in Lush Lindsey dava maggior spazio alla propria vocalità; alcuni tratti peculiari della cantautrice del Maryland sono però, e per fortuna, capisaldi anche di questo disco: l’approccio resta full band (nelle orecchie abbiamo ancora il nuovo e noiosissimo disco di Clairo, e temevamo potesse ripetersi qualcosa di simile), i vocals di Lindsey sono quelli che conosciamo e adoriamo, con quell’andamento spesso lamentoso che altri artisti magari cercherebbero di smorzare e su cui Snail Mail invece calca parecchio la mano. Valentine è un bel disco nonostante manchino i singoloni come Pristine, Heat Wave e Stick, con la title track che è l’unico pezzo veramente simile a quanto udito su Lush. La sensazione è che Lindsey, che ora ha 21-22 anni, abbia voluto fare un disco più “da grande”, con più strumenti, più arrangiamenti raffinati e meno angst giovanile. Qualcosina di quel fascino iniziale forse è andato perduto, ma ci piace come l’artista ha dato un’evoluzione al proprio sound, rendendolo più articolato ma senza strafare.
Laila Al Habash – Mystic Motel
(Undamento, 5 novembre 2021)
Dopo il bellissimo EP Moquette uscito a febbraio, per Laila Al Habash, uno dei più evidenti talenti della nuova scena (indie) pop italiana, arriva il momento di confrontarsi con un album full length. L’album, pubblicato da Undamento, contiene alcuni dei singoli che abbiamo ascoltato in rotazione negli ultimi mesi come Ponza, Gelosa e Oracolo, insieme ad altre nove tracce inedite per un totale di dodici pezzi. Il disco è come sempre prodotto da Niccolò Contessa de I Cani e Stabber, e vede un featuring importante come quello di Coez sulla traccia 6, Sbronza. Il sound prevalente è quel pop piuttosto upbeat che mette anche un pochino voglia di ballare o ondeggiare sul posto, che abbiamo imparato a conoscere dall’artista romano-palestinese, ma non mancano cambi di suoni, come nella ballad al pianoforte Fotoromanzi o nelle atmosfere emo rap di Sabbia. Ma lungo la tracklist si fa apprezzare anche qualche trucchetto di produzione per variare un po’, come la sirena che chiude Sbronza (opportunamente appena dopo che Laila e Coez dicono “gli sbirri ci buttano giù la porta”) e che prosegue nella successiva Sunshine diventando la base di un beat molto tamarro, oppure -nella stessa Sunshine- l’inserimento di un vocale di Laila che spiega come preparare il pollo al curry. Il pop è un genere in cui buttar fuori un intero disco è sempre complicato, perché tutte le canzoni dovrebbero tentare di tenere il passo dei singoli -altrimenti diventa noioso- e forse in Mystic Motel ci sono alcuni brani che paiono più deboli degli altri, ma ci sono anche pezzi nuovi come Abbagli e Pianeta che potevano benissimo diventare singoli al posto di quelli usciti pre-release; nel complesso ci sentiamo di dire che Laila ha ampiamente superato il battesimo del fuoco del disco d’esordio, e ci prepariamo per vederla sbocciare (come fanno i fiori, non -o non solo- come si fa con le bottiglie, per intenderci) in questi mesi a venire.
SeeYouSpaceCowboy – The Romance of Affliction
(Pure Noise Records, 5 novembre 2021)
Se nel 2009 passavate le giornate su MySpace e giravate con ciuffi kilometrici, cinture con le borchie bianche e nere, fin troppo makeup in faccia ascoltando Dressed for Friend Requests o Apology e vi mancano da morire quei tempi, siete in buona compagnia perché è evidente che quell’epoca d’oro manca disperatamente anche a questi cinque individui di San Diego con un contratto con Pure Noise e tanta voglia di rinverdire quei fasti. The Romance of Affliction è il terzo album dei SeeYouSpaceCowboy e ha tutto quello che dovrebbe avere un buon album metalcore caricato su MySpace una decina di anni fa: copertina pasticciata ma comunque semisplatter, titoli delle canzoni lunghissimi, scream a manetta ma con una buona dose di ritornelli puliti, chitarre e vocals presi da In Vogue dei Drop Dead, Gorgeous. La produzione è cristallina e tirata al punto giusto, i vocals di Connie Sgarbossa eseguiti oggettivamente alla grande e il disco si conclude prima che possa cominciare a stancare. Certo, in questo tripudio di scream a volte alcune canzoni sono difficilmente distinguibili da altre, ma è un contrattempo che accetti quando decidi che ti piace questo genere. Se avranno più successo e riusciranno a creare un movimento di una certa rilevanza che riporti in auge questo modo di fare musica, noi saremo in prima fila a ringraziarli.
Youth Fountain – Keepsakes & Reminders
(Pure Noise Records, 5 novembre 2021)
Nel calciomercato del pop punk, i Real Friends hanno perso il proprio cantante Dan Lambton e l’hanno sostituito (peraltro con ottimi risultati) con Cody Muraro prelevandolo dai meno quotati Youth Fountain, band in cui Muraro era co-vocalist insieme al malcapitato Tyler Zanon, ritrovatosi ora da solo a dover gestire tutti i vocals. Non facile riprendersi da un cambio di cantante, ma il progetto canadese ci prova con il suo secondo album Keepsakes & Reminders, uscito per Pure Noise (stessa etichetta dei Real Friends, tra l’altro) così come il precedente Letters to Our Former Selves del 2019. Va detto che, se il pop punk del 2021 muove su direzioni molto pop e anche un po’ trap, gli Youth Fountain se ne fregano completamente e ci propongono un disco con le sonorità che andavano di moda ai vecchi tempi -cioè fino a tre anni fa: un pop punk molto veloce e melodico, aggressivo e angsty, con occasionali scream a completamento dei vocals un po’ come nelle canzoni meno post-hardcore dei Silverstein. Prese singolarmente, molte delle tracce sono molto gradevoli, in particolare highlights come Century e Peace Offering; nel contesto dell’album intero però la formula diventa ripetitiva, anche perché i vocals di Tyler sono ottimi a livello tecnico ma tendono a ricalcare sempre le stesse melodie e gli stessi andamenti. Sicuramente qualche canzone in meno su una tracklist di 14 brani non guasterebbe. Insomma, il disco non ci piace, ma apprezziamo comunque la scelta di proporre un sound che non è quello richiesto dalle logiche commerciali attuali, e anche la decisione di non inserire ballad acustiche nella tracklist, che spesso nei dischi pop punk risultano il momento più debole dell’album se non fatte a dovere.
Graey – Novantasei
(self-released, 10 novembre 2021)
Secondo EP per il carpigiano Graey -il primo, Vertigine, era uscito nel 2019- ma è un po’ come se fosse una sorta di “opera di addio”. Luca Grella, questo il vero nome dell’artista classe Novantasei come il titolo del disco, ha voluto navigare “tra i ricordi dei miei venticinque anni per tuffarmici dentro e vivere per un’ultima volta quella dannata nostalgia che sempre mi accompagna”, segnando quindi un punto di fine e di ripartenza non soltanto del proprio percorso musicale ma anche della propria vita; quasi un EP per dire addio alla propria (tardo)adolescenza e prepararsi per l’ingresso nella vita adulta -ahilui. Novantasei è un disco chill pop, perché tutti e sei i brani sono easy listening e hanno vibe e atmosfere parecchio rilassate, un pochino raffinate, perfette come sottofondo musicale per decomprimere e allontanare il turbinio di pensieri legati al lavoro, alle relazioni sociali e alle preoccupazioni quotidiane. Certi brani (come Prospettive) assomigliano anzi più a frammenti musicali che a canzoni intere con un inizio, uno svolgimento e un finale, e alla fine gli highlight dell’EP sono due brani già editi come le tracce finali News di stasera e Lungometraggio. Il disco però nel complesso rischia di scivolare via come quelle canzoni gradevoli ma che faticano a imprimersi nella mente o entrare nel corpo.
Justin Courtney Pierre – Ghost World
(Epitaph Records, 12 novembre 2021)
Secondo EP in pochi mesi per il frontman dei Motion City Soundtrack (The Price of Salt era uscito a luglio), che nel 2018 ci aveva deliziato con il bellissimo disco solista In the Drink. Come il precedente EP, Ghost World (che condivide il nome con il bellissimo film del 2001 con Scarlett Johansson e Thora Birch) contiene cinque canzoni di durata relativamente breve, ma se quello era un lavoro prettamente punk rock, qui l’elemento punk viene in parte smorzato da divagazioni più alternative rock; Horse Racing è un brano uscito da qualche album dei Jimmy Eat World, Gate Kicker è un brano di sola chitarra e voce, e in più parti Justin Courtney Pierre lascia libero sfogo ad ampie parti solamente strumentali, che nel punk spesso scarseggiano in favore della velocità e dei testi. Il sound insomma è piuttosto gradevole, anche se l’EP resta in sostanza un’opera di interesse principalmente per i fan dei Motion City Soundtrack.
Katelyn Tarver – Subject to Change
(Compliments Only, 12 novembre 2021)
Oltre che cantautrice, Katelyn Tarver è anche attrice: sul piccolo schermo ha interpretato Jo Taylor nella serie Big Time Rush, oltre a figurare nel cast di No Ordinary Family e La vita segreta di una teenager americana. Nel 2011 Katelyn ha pubblicato il suo EP d’esordio A Little More Free, ma è nel 2017 che arriva il successo anche in ambito musicale con il brano You Don’t Know, diventato virale su YouTube. Ora l’artista della Georgia ma di base a Los Angeles ci fa ascoltare finalmente il suo primo album completo, anticipato da singoli che ci erano piaciuti come All Our Friends Are Splitting Up e Hurt Like That. L’album si pone idealmente tra una Taylor Swift e una Phoebe Bridgers, nel senso che unisce tendenze indie (rock) ad ampi stralci di pop con le chitarre, come dimostrano perfettamente le due tracce d’apertura. Si potrebbe parlare di Subject to Change anche come di una risposta indie a Sour di Olivia Rodrigo (entrambe condividono peraltro la doppia vita musicale e cinematografica), con i suoi testi principalmente personali, alcuni più tristini e malinconici (All Our Friends, Downhill from Here), altri più domestici (Glad I Got You, When I Leave Home) e moltissimi da heartbreak -disperato o incazzato- il cui messaggio principale è fondamentalmente che anche chi sembra avere tutto dalla vita attraversa momenti felici e meno felici. Il filone delle ragazze indie tristi con la chitarra è stato particolarmente prolifico negli ultimi anni e finora ha portato tante artiste al successo; inevitabile che ora il mercato cominci a essere un po’ saturato e il disco di Katelyn è forse quello che certifica ufficialmente questa fase commerciale per il genere: è molto grazioso e ascoltabile, ma aggiunge poco a un sound che ormai conosciamo fin troppo bene.
Francesco Aubry – Gli anni venti
(G & G Records, 19 novembre 2021)
Sulla scia dei due recenti singoli D.N.A. e Novecento, il cuneese Francesco Aubry fa seguire l’uscita del suo album Lontano da qui (2019) a questo più smart EP intitolato Gli anni venti -che possono essere tanto quelli che stiamo vivendo quanto quelli “ruggenti”- che già dal nome ci fa capire come il tema del disco sia il passare del tempo analizzato tramite diversi ambiti di riferimento culturale. La title track è ad esempio un inno “boomer” di insofferenza verso la trap e le ultime tendenze musicali dell’attuale decennio su un sound che alterna strofe synth/industrial a un ritornello punk rock (che poi alla fine risulta essere al passo con il recentissimo trend); D.N.A. ricorda le vacanze al mare d’antan immortalate da foto analogiche; Novecento se la prende di nuovo con la trap (che gli avrà mai fatto Sfera Ebbasta al buon Francesco?); Hikikomori invita a scoprire e accettare la bellezza che sta in ognuno di noi invece che rinchiuderci in noi stessi facendo di fatto fermare il tempo, tra echi di Eurythmics e una chitarra AOR; Clessidra rappresenta lo scorrere inesorabile del tempo tramite una pseudoballad piano e synth scandita dal ticchettio delle lancette di un orologio (la sabbia della clessidra non fa rumore per cui non si poteva usare), sinceramente un po’ troppo lunga con i suoi sei minuti totali. A Francesco Aubry non piace la musica dei “giovani d’oggi”; in compenso gli piace sperimentare, mescolare, divagare e creare ibridi di tutto quello che la musica ha offerto al mondo tra gli anni ’80 e suppergiù i ’90: abbiamo così canzoni che da synthpop si trasformano in rock ballads o in scatenati pezzi punk nel giro di un ritornello, chitarre che si sovrappongono a suoni computerizzati e momenti a cappella. Difficile annoiarsi; magari se ti è piaciuto quel famoso film sui Queen con cui ci stanno ancora scassando l’anima a distanza di tre anni, potrai trovare qualcosina di interessante anche sull’aubryano EP.
Vintage Violence – Mono
(Maninalto! Records, 19 novembre 2021)
Eccoci qui, a sette anni di distanza da Senza paura delle rovine, a commentare finalmente l’uscita del nuovo e a lungo atteso album dei Vintage Violence, band di culto del rock underground italiano. Se la band si presenta come “una via di mezzo fra De André e i NOFX” ed è da vent’anni nota per i propri testi impegnati non solo in termini sociali e politici ma anche filosofici, su Mono l’approccio è amplificato non solo -anzi, non tanto- a livello di sound, ma nella profondità ulteriore che si percepisce dai testi, come se questi fossero stati sette anni di intense riflessioni, di letture complicate e di crescita personale e mentale per la band. Alcuni brani sono diretti e di indubbia interpretazione: su Paura dell’islam si parla della xenofobia che pervade la nostra società, come nella divertente Dicono di noi la band si prende gioco di tutte le etichette che negli anni le sono state appiccicate addosso (da “finanziati dalla Caritas” a “volontari dell’Arci”, passando per “sansepolcristi”, “satanisti” e “stalinisti”). Altrove la band indaga però i grandi temi e le grandi domande a cui da sempre la specie umana cerca risposta: il rapporto con la vita e con la morte, la religione, la direzione dell’esistenza personale e universale, in un disco che si presta quindi a essere goduto su vari strati o livelli di lettura. Mono è infatti un ottimo disco (punk) rock italiano dal sound trascinante e catchy su cui fare casino sottopalco ai concerti della band; è un ascolto veloce per dare una botta di energia a un viaggio in macchina (o sulla bici, per essere più ecologici); è un album su cui incazzarsi o da cui farsi ispirare ascoltando i testi più politicizzati e immediati; è un’opera –scritta per restare e non di consumo a breve scadenza– su cui meditare a lungo per trovare “la chiave” (non a caso titolo della traccia conclusiva) di lettura nascosta fra allusioni, pensieri e riflessioni.
Release show dell’album sabato 27 novembre al Legend Club di Milano (informazioni).
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