Gli album del mese: The 1975, The Wonder Years, Chloe Moriondo & more

The 1975 Being Funny in a Foreign Language copertina

The 1975 – Being Funny in a Foreign Language

(Dirty Hit, 14 ottobre 2022)

Si può ben dire che Being Funny in a Foreign Language, il nuovo album dei The 1975, fosse un disco ardentemente atteso. La band inglese veniva dai successi e dagli eccessi di due dischi collegati come A Brief Inquiry into Online Relationships e Notes on a Conditional Form; due album lunghissimi, pieni di canzoni appartenenti a qualsiasi genere musicale esistente, senza alcun apparente filo logico dal punto di vista musicale; due album in cui la band ha dato sfogo a tutto l’impulso creativo, visionario e anche un po’ matto che scorreva nelle proprie vene, e dove magari i pezzi non erano tutti belli (anzi…) ma che racchiudevano in sé tutto quello che sono stati gli anni 2010 non solo nella musica ma nel mondo in generale, per le generazioni che in quel decennio si sono affacciate al mondo dei grandi per la prima volta. Quei due dischi sono una sorta di lascito testamentario che gli anni ’10 hanno consegnato a futura memoria delle prossime generazioni. Difficile, anche per un gruppo ormai esperto come i The 1975, capire dove andare a parare nel nuovo disco dopo aver sostanzialmente esplorato la musica in qualsiasi sua forma.

La strada che hanno deciso di percorrere Matty Healy e compagni è stata quella di smorzare i toni, bandire gli eccessi e limitare anche numericamente la tracklist: solo undici le canzoni che compongono Being Funny. Si tratta di un disco dove i brani hanno un sound molto più omogeneo e che rinuncia volontariamente a suonare magniloquente o grandioso per assumere un tono più confidenziale; la sensazione è quella di un post-sbronza (i due dischi precedenti) dal quale si cerca di riemergere e tornare sobri. Per dare forma a queste idee, la band ha deciso -ahimè- di collaborare con il produttore Jack Antonoff, probabilmente il producer con il maggior hype del momento nel mondo della musica mainstream. Un hype che si spiega col fatto che l’ex membro dei Fun ha lavorato con i nomi più importanti della musica pop di oggi (Taylor Swift, Lana Del Rey, Lorde…), ma che poi ascoltando i dischi da lui lavorati si fatica a ritenere giustificato. Jack Antonoff è una sorta di Re Mida musicale al contrario: tutto quello che tocca diventa spazzatura.

Sembra che Jack Antonoff abbia una particolare allergia per i ritornelli catchy, per le melodie accattivanti e per le sonorità avvincenti: tutto nelle sue produzioni suona blando, ricercato e fintamente artistico (basti vedere il profluvio di trombe, violini, sassofoni e altri strumenti che nel contesto di questo disco non servono assolutamente a nulla ma che danno l’idea di essere dei grandi artisti alternativi e un po’ maledetti). La totale mancanza di ambizione di Being Funny in a Foreign Language, unita alla grave carenza di belle canzoni, fanno sì che quest’album suoni estremamente e insopportabilmente noioso; se anche i The 1975 non erano particolarmente ispirati durante la scrittura dei brani, una produzione più frizzante e una maggior varietà di suoni avrebbero forse potuto far arrivare in porto la nave in sicurezza regalandoci un disco magari non memorabile ma comunque apprezzabile. I due dischi già citati erano un pastrocchio di suoni, generi e stili completamente diversi, però ribollivano di vitalità e di energia creativa; qui abbiamo un’infornata di canzoni che suonano tutte identiche, prive di qualsivoglia elemento che le renda memorabili e appiattite da una produzione spocchiosa e fintamente artistica di cui Antonoff è maestro, un maestro dal quale i The 1975 si sono fatti abbindolare con fin troppa facilità.


The Wonder Years – The Hum Goes On Forever

(Loneliest Place on Earth/Hopeless Records, 23 settembre 2022)

Quattro anni dopo Sister Cities, e ormai un buon decennio dopo il loro momento d’oro quando con The Greatest Generation erano diventati all’epoca la più importante band della scena pop punk, i The Wonder Years pubblicano il loro settimo album, The Hum Goes On Forever, sempre per Hopeless Records e per la loro etichetta Loneliest Place on Earth. È un disco su cui la band ha in parte cercato di riprendere le sonorità più tipicamente pop punk che avevano caratterizzato i dischi fino a The Greatest Generation (forse anche per “riprendersi” quella fetta di fan che si erano pian piano raffreddati nei confronti del gruppo con gli ultimi due dischi più riflessivi e lenti), pur senza abbandonare del tutto la rotta tracciata da No Closer to Heaven in avanti. Oldest Daughter o Old Friends Like Lost Teeth potrebbero essere brani usciti da qualche album dei The Wonder Years di una dozzina di anni fa (anche se una certa maturità si sente, anche solo per i testi), altri brani come Songs About Death o Laura & the Beehive rallentano i ritmi e suonano più come i recenti The Wonder Years, ma nel complesso sembra che la band abbia trovato il bilanciamento perfetto per il proprio sound del 2022. Quello che non è mai cambiato invece sono i testi di Dan Campbell, probabilmente il miglior lyricist del panorama pop punk (di tutti i tempi, per quanto riguarda questo genere), che su questo disco affronta per la prima volta i temi della paternità e dell’ansia dettata dal vivere e crescere dei figli in un mondo e in una società sempre più precari e sull’orlo del collasso. The Hum Goes On Forever è un disco che si piazza ai primissimi posti dell’ormai piuttosto estesa discografia della band di Philadelphia.


Chloe Moriondo – Suckerpunch

(Fueled by Ramen, 7 ottobre 2022)

L’abbiamo persa? Di Chloe Moriondo avevamo adorato il disco Blood Bunny uscito nella prima metà del 2021, con quel suo mix fresco e ben riuscito di indie, pop e pop punk; poi era uscito un EP interlocutorio incentrato sugli animaletti ma che era zeppo di canzoncine pop piuttosto scialbe, e ora arriva questo nuovo album intitolato Suckerpunch (come altri tremila dischi pop contemporanei, vedi il nuovo di Maggie Lindemann), su cui l’artista abbraccia completamente il pop mainstream più becero ed elettronico. Non sappiamo fino a che punto questa sia una sua scelta o piuttosto una imposizione della major con cui è sotto contratto (Fueled by Ramen), in ogni caso è una decisione che ci lascia davvero perplessi, se non attoniti. Il cambio di stile è radicale e brusco, le canzoni banali, brevi e pensate solo per ottenere un ipotetico successo sul brevissimo periodo, i testi contengono tutti i più classici cliché delle canzoni pop mainstream, dalla “I’m a bad bitch”, all’avere “money on my mind”, o “you can’t even reach my limousine” che risultano ridicoli visto il percorso fatto fin qui da Chloe, e talmente forzati che quasi ci si sente dispiaciuti per lei che l’abbiano fatta andare in questa direzione veramente tremenda da intraprendere. Magari il disco farà successo su TikTok, o su qualche simile piattaforma di consumo rapido, ma dal punto di vista musicale questa è una scelta deludente e scoraggiante.


Oh Wonder – 22 Make

(Island Records, 7 ottobre 2022)

È già tempo di un nuovo album per gli Oh Wonder, che con 22 Make completano idealmente il concept iniziato con il precedente disco 22 Break, uscito sù per giù un anno fa. Se quello era un disco scritto da una coppia che si stava separando, questo è il disco che sancisce ufficialmente la rifioritura dell’amore e il ristabilimento dell’ordine naturale delle cose in casa Oh Wonder. Naturale quindi che se le canzoni di 22 Break avevano una connotazione un po’ triste, malinconica e delusa, qui tutti i brani celebrino l’amore e la felicità di passare il resto dei propri giorni con la persona amata. Questo principalmente per quanto riguarda i testi; dal lato musicale si può invece dire che 22 Make sia un disco assolutamente in linea con il precedente, assestandosi su un pop leggero, melodico, occasionalmente ritmato e a tratti quasi evanescente. Mancano sicuramente pezzi davvero catchy e di presa immediata, che ancora c’erano nel disco No One Else Can Wear Your Crown del 2020; le melodie su cui insistono Josephine e Anthony appaiono ampiamente già sentite se non direttamente prevedibili, e i testi tutti “cuore e amore” finiscono per dare un surplus di zucchero: se una volta le loro canzoni d’amore erano tenere, ora sono soltanto intollerabilmente melense. Non tutto è da buttare: qualche brano qua e là è molto ascoltabile e carino, come 365, Magnificent o Fuck It I Love You, ma l’impressione generale è che manchi l’energia e il dinamismo che dovrebbero far venire voglia di ascoltarsi un disco per intero.


Vukovi – Nula

(Lab Records, 7 ottobre 2022)

Terzo album per gli scozzesi Vukovi, che a circa due anni e mezzo dallo sfortunato Fall Better (un ottimo disco, uscito purtroppo poche settimane prima dei grandi lockdown) ci propongono questo Nula, un disco piuttosto ambizioso e fortemente influenzato dalla fantascienza, come si può sentire anche negli interlude e nell’intro del disco, che parlano di viaggi spaziali e preparazioni per il lancio. L’ambizione di questo disco deriva dalla volontà di ampliare le sfumature sonore del sound del duo, con maggior ricorso a suoni elettronici ma allo stesso tempo anche a riff che sembrano presi direttamente da qualche breakdown metalcore, come in Tainted, Lasso, I Exist o in misura minore in Slo. Tutto questo fa sì che Nula suoni come un disco più “grosso” e potente rispetto alle due prove precedenti dei Vukovi, che pure avevano sempre fatto un alternative rock piuttosto energico e pesante. Non sempre i brani funzionano alla grande e l’impressione è che in Nula ci sia più di qualche traccia filler, da Quench a Shadow a Hades, però il livello generale resta buono, con molti pezzi carichi e che comunicano urgenza di muoversi. Il dubbio più grande, comune fra l’altro anche ai precedenti album dei Vukovi, è che i pezzi tendano un po’ ad assomigliarsi, e anche se i ritornelli sono potenti e accattivanti, falliscano nel restare veramente impressi nella mente di chi ascolta: Nula corre, secondo noi, il rischio di essere il tipico disco che quando lo ascolti lo apprezzi, ma che difficilmente vai a riascoltarti a distanza di qualche tempo dall’uscita.


Lolo – Debbie Downer

(Hopeless Records, 30 settembre)

Il rinnovamento totale deciso un paio d’anni fa in casa Hopeless Records ha portato all’abbandono di alcune band storiche dell’etichetta (vedi Neck Deep, Roam o Tiny Moving Parts) e all’ingresso di parecchi giovani artisti, alcuni promettenti e altri su cui ci riserviamo di esprimere qualche dubbio. Fra le novità c’è Lolo, una ragazza canadese emersa su TikTok che ha pubblicato nel 2019 il suo primo EP Sweater Collection e che ora ne pubblica un secondo intitolato Debbie Downer. La canzone da cui prende il titolo il disco è un featuring con Maggie Lindemann e suona parecchio pop punk sullo stile di Avril Lavigne negli anni 2000; il suo ritornello accattivante e il testo sbarazzino e simpatico ne fanno indubbiamente il pezzo forte dell’EP, purtroppo non sostenuto dal resto della tracklist. Chi si aspettava di sentire un disco all’incirca sulla scia di quel brano infatti resta tranquillamente deluso da una serie di canzoncine pop rock non troppo convinte, con ritornelli ascoltabili ma ben lontani dall’essere catchy, chitarre che non spingono e testi pieni zeppi di banalità (“if you were a drug, I’d be a junkie … I know you’re no good, but I want you so bad”, recita il ritornello di Junkie) o di frasi edgy senza motivo (“Living on TV and nirvana and too much marijuana”). Si poteva decisamente fare di più, sia dal punto di vista musicale che da quello dei testi.


Oakman – SCP

(Rude Records, 30 settembre 2022)

Abbiamo già avuto occasione di parlare davvero bene degli Oakman, nuova firma francese della sempre attenta Rude Records. Lo avevamo fatto con l’uscita dei singoli Fantasy, Night e All the Way Up, riscontrando già le caratteristiche principali -a grandi linee- del trio, ovvero quelle di un sound vicino al synthpop con tendenze rock, decisamente allegro e sognante, sulla scia di band come Chvrches (per i synth e in parte i vocals), The Maine (per le chitarre) e i Paramore di After Laughter (per il mood sonoro dei brani). Tutti tratti confermati dal resto delle canzoni dell’EP, sei brani che travolgono con la loro joie de vivre e con la loro catchiness. Spiccano su tutte due tracce come Murder e SCP, ma l’intero EP è davvero delizioso e sicuramente meritevole di un pubblico e un’attenzione più vasti. Nota di merito per la cantante Marine, che riesce a camuffare benone il proprio accento francese andando vicina a suonare come farebbe una persona americana, al di là di qualche concessione alle nasali tipiche della lingua transalpina (come nel marcato “I murder you for once” di Murder). Musicalmente, una band già pronta per fare il salto di categoria.


Gold Steps – That Ain’t It

(Revival Recordings, 7 ottobre)

Girano ormai già da qualche anno i Gold Steps, per ora rimasti nel sottobosco pop punk americano senza ancora riuscire a spiccare veramente il volo; complice anche -verosimilmente- il momento in cui si sono presentati sulle scene: il loro primo EP risale al 2016, quando quell’ondata pop punk era già arrivata all’apice e si avviava verso la fase calante. That Ain’t It è il loro secondo album -il primo, Incandescent, risale al 2018- fuori per Revival Recordings, e vede otto canzoni di stampo decisamente 2010s pop punk, di quello che alcuni anni fa sarebbe stato probabilmente definito “generic” (un’accezione che nata come negativa, era via via divenuta neutra). Il cantato è affidato alla voce femminile di Liz Mauritz, che dà maggior melodia e dolcezza ai brani facendoci pensare al periodo d’oro in cui avevamo We Are the In Crowd e Candy Hearts, ma il sound è molto affine a quello dei maggiori gruppi pop punk dello scorso decennio, dai Neck Deep (da una cui canzone la band prende anche il nome, immaginiamo) agli State Champs ai The Story So Far. I Gold Steps in That Ain’t It non usano beat computerizzati, synth e vocals autotunati in stile trap, e in questo modo probabilmente si precludono l’attenzione da parte delle major che stanno spingendo il filone di attuale successo alla Machine Gun Kelly, Willow ed emuli vari; condannati a rimanere in una nicchia di puristi del genere o di nostalgici dell’era 2010, i Gold Steps non sembrano curarsene troppo, e anzi è forse proprio questo quello che vogliono. Il loro pop punk in ogni caso è accattivante, melodico e di facile approccio, e non ha nulla da invidiare a quello di alcune delle migliori band di questo genere.


Saimon Fedeli – Stanze vuote

(LaPop, 12 ottobre 2022)

Dopo un po’ di singoli per spianare la strada, ecco finalmente Stanze vuote, il secondo album di Saimon Fedeli, a quattro anni di distanza dall’esordio con Autoritratto. Le stanze vuote indicate nel titolo “sono quelle in cui entriamo quando dolorosamente facciamo i conti tra ciò che avremmo voluto essere e ciò che siamo diventati”, e in linea con questa presentazione fatta dall’artista, Stanze vuote è un disco che tende alla riflessività; un album in larga parte raccolto e intimo con una prevalenza di brani al pianoforte, ma che sa anche movimentare le proprie sonorità e il proprio carattere. In effetti, i singoli pubblicati prima dell’uscita del disco sono quasi tutti pezzi piuttosto allegri e danzerecci (vedi Capita capita), addirittura con accenni di ritmi ska (Sola); Saimon ha riservato i brani più delicati -che sono anche quelli che richiedono una maggior attenzione durante l’ascolto, più idonea all’ascolto di un disco nel suo intero che a un singolo a sé stante nel mondo iperplaylistizzato di oggi- per la tracklist restante dell’album. Si vedano ad esempio le due tracce di chiusura, ovvero Le favole con la sua andatura lenta al piano e al violino, dal sapore quasi caposseliano, e Statuine d’argilla. Ma è una dimensione molto cantautorale che ritroviamo anche in pezzi come La verità (piano e voce) e Finisce così, con Un’inutile preghiera e Con o senza me che ricalcano sì questi sound, ma sapendo anche assumere un certo ritmo favorito dai beat. La prevalenza di pezzi lenti fa sì che Stanze vuote non sia un ascolto immediato o buono per tutte le occasioni; serve un po’ di raccoglimento e di predisposizione all’ascolto attento, il che può ovviamente in parte limitare la platea di chi ascolterà il disco “enjoying it”, ma allo stesso tempo i pezzi hanno una certa sensibilità pop che rende Stanze vuote un album ben lontano dall’essere un “malloppone”, e poi infine un minimo di “selezione all’ingresso” è sempre bene farla!


Luca Mazzieri – Quasi mai

(LaPop, 19 ottobre 2022)

È stato particolarmente lungo il percorso che ha portato Luca Mazzieri all’uscita del suo primo lavoro discografico: i primi singoli tratti dal disco erano usciti già nell’ormai lontano 2020, e solo ora vede la luce Quasi mai, un EP lungo, o album breve, ma tanto ormai i confini fra le due tipologie di pubblicazione sono sempre più sfumati. Sono in ogni caso sette canzoni descritte da Luca “un po’ come un concept album [dove] si parla di periferia, musica e bar”. Una specie di disco degli 883 ma ambientato in Emilia insomma. Scherzi a parte, Quasi mai è un disco che si configura essenzialmente come un lavoro pop rock, dove i brani hanno per lo più un’aria spensierata e felice (spesso malinconicamente felice, come nella closing track Prati). Highlight per noi è Nico, un bel brano pop rock ritmato e upbeat, da ascoltare in macchina coi finestrini abbassati lungo la costa, con un bel finale ricco di trombe (strumento ricorrente nell’album) anche se forse della citazione di Andiamo a comandare non sentivamo davvero la necessità. Qua e là si sentono sprazzi di Cesare Cremonini (Prati), Grignani (Lunapark) e del rock americano anni ’70 (Birra), pure un po’ di funky sul brano Botta. Luca Mazzieri ha fatto un disco positivo da ascoltare, che può infondere un po’ di energia o anche solo di evasione a chi lo ascolta, e se le vibe dell’album ci sembrano più tardo-primaverili che autunnali, possiamo comunque ascoltarcelo senza problemi all’aria aperta in queste giornate ancora (troppo) calde di ottobre.


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