Gli album del mese: Maggie Lindemann, Weezer, The Beths & more

Maggie Lindemann – Suckerpunch
(Swixxzaudio, 16 settembre 2022)
Maggie Lindemann era diventata famosa (in parte anche in Italia) nel lontanissimo 2016 grazie al suo singolo d’esordio Pretty Girl, che sembrava averla lanciata verso una carriera da tradizionale popstar o presunta tale. Le cose invece sono andate un po’ diversamente, e sei anni dopo la ritroviamo a collaborare con nomi noti come John Feldmann e Andrew Goldstein per la pubblicazione del suo primissimo album full length, dal titolo un po’ banale, ovvero Suckerpunch (come il disco di Sigrid uscito tre anni fa, come quello di Chloe Moriondo che uscirà fra qualche settimana, giusto per restare in ambito pop mainstream). Dai singoli usciti prima del disco, come She Knows It, You’re Not Special e How Could You Do This to Me?, ci si poteva aspettare un album pop punk come va di moda in questo periodo, magari sulla scia di Machine Gun Kelly, Yungblud e simili. Invece la maggior parte delle canzoni di Suckerpunch sorprendono perché hanno un sound molto più heavy, che si avvicina quasi alle sonorità alternative metal di gruppi come gli Evanescence. Certo, si ritrova anche del pop punk più tradizionale come in Cages, qualcosa di pop ed elettronica-dark come in Phases o in Break Me!, e pure la classica ballad acustica We Never Even Dated, ma il sound prevalente è più tirato e aggressivo, e questa cosa non dispiace affatto -anche perché di emuli di MGK ormai ne abbiamo fin troppi.
Weezer – SZNZ: Autumn
(Crush/Atlantic, 22 settembre 2022)
Con questa storia di un disco per ogni stagione dell’anno, gli Weezer stanno facendo di tutto per farsi odiare; noi però continuiamo a volergli bene, anche se arrivati al terzo EP -questo SZNZ: Autumn, che giunge il 22 settembre anche se l’equinozio sarebbe il 23- cominciamo a non poterne davvero più di questa sequela di canzoncine carine e gradevoli ma piuttosto insulse e inutili. A dir la verità, Autumn è probabilmente il migliore dei tre dischi pubblicati sinora (non che la concorrenza fosse spietata…), con un pezzo come Tastes Like Pain che è sin qui forse l’highlight dell’intero progetto con la sua interpolazione dell’Inverno di Vivaldi e altri abbastanza ispirati come i divertenti Can’t Dance, Don’t Ask Me o Get Off on the Pain. Questo però non basta a compensare pezzi flaccidi come Francesca o Should She Stay or Should She Go, e in generale la sensazione che gli Weezer ci stiano bombardando di nuove canzoni totalmente inutili anche per loro stessi, e che probabilmente non vedranno mai nemmeno la luce dal vivo. Ma adesso non c’è tempo per riposare: fra meno di tre mesi arriva il nuovo disco, SZNZ: Winter.
Our Last Night – Decades of Covers
(self-released, 9 settembre 2022)
A qualche mese dall’EP lungo/mini-album Empires Fall, gli Our Last Night ci presentano un’altra raccolta di brani, questa volta cover. Non una novità per li chi conosce e sa che sono il miglior gruppo capace di reinterpretare in chiave post-hardcore/metalcore successi mainstream; d’altronde le visualizzazioni dei loro video raggiungono numeri importanti e buona parte della gente li conosce principalmente per questo motivo. Il titolo del disco è eloquente: gli otto brani che hanno confezionato sono stati scelti in base a un criterio “generazionale”, due per decade dagli anni Settanta ai Duemila. Troviamo canzoni che mai ci si aspetterebbe in versione core come Dancing Queen, brani già rispolverati di recente – e per questo inflazionati – come Running up That Hill, perfino il mostro sacro Wonderwall e una davvero improbabile Livin’ la vida loca; l’unico pezzo assimilabile al background della band è Numb dei Linkin Park. È difficile spaziare tra originali dal genere così diverso e saperli rendere bene, ma gli Our Last Night se lo possono permettere e lo sanno: infatti quello che viene fuori è, immancabilmente, un buon lavoro. Nonostante l’idea di fondo sia carina, resta però un disco da cui l’ascoltatore andrà occasionalmente a pescarsi la singola canzone che gli interessa, ma difficilmente se lo ascolterà dall’inizio alla fine. [Simone De Lorenzi]
The Beths – Expert in a Dying Field
(Carpark Records, 16 settembre 2022)
Terzo album per i neozelandesi The Beths, questo Expert in a Dying Field che esce per Carpark Records ed è bello già anche solo dal titolo. La band mette in fila dodici canzoni dove l’indie rock si colora a più riprese di tinte quasi pop punk, un po’ come se fossimo all’inizio degli anni 2010 quando sembrava che stesse nascendo una scena di questo genere capeggiata da band con voci femminili. La cosa che piace di più di questo disco è la gioia di vivere, l’energia positiva che trasudano i brani: i The Beths sono una band che si diverte, e tanto (basta vedere il video per Knees Deep, che è anche di gran lunga la vera hit dell’album, dove i membri del gruppo si lanciano con una corda da un ponte). Dove Expert in a Dying Field inciampa un pochino sono le ballad come Your Side o I Want to Listen, che hanno il compito di far prendere il fiato al disco -e a noi- e dare un cambio nelle dinamiche della tracklist, però non riescono altrettanto bene quanto i pezzi veloci. Ci restano però parecchi pezzi divertenti che rendono questo un album perfetto da ascoltare in macchina, in bici, nei momenti allegri e magari pure in quelli tristi per qualche attimo di evasione.
No Devotion – No Oblivion
(Velocity Records, 16 settembre 2022)
Della tormentata -e molto sfigata- storia dei No Devotion avevamo parlato in precedenza, ma per riassumere: si tratta della band fondata da Geoff Rickly dei Thursday insieme a tutti i membri dei Lostprophets dopo che il cantante di questi ultimi è stato arrestato per pedofilia, quindi già la nascita della band è da ritrovare in un evento traumatico; non bastasse, appena dopo l’uscita del primo album (Permanence, 2015) l’etichetta che aveva accolto la band è sparita in seguito all’arresto del suo fondatore Martin Shkreli, “l’uomo più odiato d’America” (almeno fino all’avvento di Trump) che ha tentato di rendere irreperibile un farmaco salvavita per le persone malate di AIDS, sul quale aveva il brevetto. Il colpo sembrava essere stato fatale per la band, che era sostanzialmente sparita dalle scene. Invece questo 2022 ci ha riportato anche i No Devotion, che ora sono rimasti un trio ma che hanno voluto regalare un follow up a quello che era davvero un gran bel disco. No Oblivion è un album di sole otto tracce ma tutte parecchio lunghe; il sound è ancora riconoscibile come quel rock principalmente elettronico che la band ci aveva proposto sette anni fa, ma si tratta di un disco molto più oscuro e meno pop del precedente, come se le sofferenze che la band da una parte e il mondo intero e la nostra società dall’altra hanno subito in questi anni si fossero ripercosse sulla scrittura dell’album. Sembra voler anche suonare più maestoso, possente e solenne dove Permanence suonava più leggero e pop (si veda l’intro della title track No Oblivion, ma è un discorso che vale per buona parte dei pezzi). Non ci sono “hit” danzerecce come Stay su questo disco, ma tutte le canzoni sono fondamentali e intense, laddove Permanence si concedeva qualche pausa o calo di tensione. Love Songs from Fascist Italy sembra una sorta di anticipazione di quello che l’Italia vivrà per i prossimi anni dopo le elezioni del 25 settembre, anche se immaginiamo sia stata scritta già da parecchio tempo; è anche l’unica canzone “semiacustica” del disco, ma mantiene tutta la forza e la sofferenza degli altri brani. Rispetto a Permanence forse manca il brano che faccia davvero breccia o che risulti immediatamente accattivante, ma come ascolto per intero è un disco di grande impatto, che mantiene alto il livello per tutti i suoi quaranta minuti e che è evidentemente concepito come un’opera da ascoltare tutta di filato.
Armor for Sleep – The Rain Museum
(Equal Vision/Rude Records, 9 settembre 2022)
Gli Armor for Sleep erano inattivi addirittura dal 2009, pur con un paio di brevissime occasionali reunion nel decennio successivo. Il 2020 sembrava l’anno giusto per la rifondazione della band, ma i piani per il tour sono stati scompaginati dal covid, e così nell’attesa Ben Jorgensen e compagni hanno avuto tutto il tempo di perfezionare l’uscita di un nuovo album, il quarto per il gruppo del New Jersey. The Rain Museum esce per Equal Vision/Rude Records, a ben quindici anni di distanza dall’ultimo disco Smile for Them, ma sembra che per gli Armor for Sleep nulla sia cambiato da allora. La voce di Ben è la stessa, il sound è preso paro paro dalla metà degli anni 2000, pur con qualche accorgimento di produzione per far sì che il disco suoni attuale, e pure i testi sono ampiamente nel solco di quanto fatto in passato, con la loro fissazione sui temi della morte, onnipresenti in ogni traccia, pure quelle d’amore. È un male? Assolutamente no: gli Armor for Sleep ci piacevano tanto per com’erano, e quindi dopo tutto questo tempo ci fa solo piacere sentire che la band ripercorre queste sonorità. Peraltro buona parte delle canzoni sono anche molto valide in termini di songwriting e di performance, per cui salutiamo con molto favore questa reunion che non è solo un modo di sfruttare la passata gloria.
Rejoyce/Rejoice – From Ghost to Ghost
(self-released, 16 settembre 2022)
I Rejoyce/Rejoice esistono ormai da tempo immemore (cioè da prima del covid, che è un po’ come dire quindici anni fa), ma per qualche ragione il loro primo singolo ufficiale –Cheap Wine– è uscito solo all’inizio di quest’anno. Era la prima anticipazione dell’album d’esordio, che vede ora finalmente la luce del sole. Si chiama From Ghost to Ghost ed è in primis un disco punk rock (vedi brani come Sad to Know) ma che prende spesso e volentieri notevoli spunti dall’emo degli anni 2000 (The Bike), in parecchie occasioni mescolando le due influenze nello stesso brano (Animal Suit è l’esempio perfetto, così come la già citata Cheap Wine). Qua e là compaiono anche delle chitarre ariose e megafeels come sul finale di I Ended Up Petting My Dirty Clothes, che per chi è cresciuto con band come i Funeral for a Friend sono regali di Natale anticipati. From Ghost to Ghost non si fa apprezzare solo per i propri suoni, ma anche per il cantato: se la parte del leone la fanno i vocals high-pitched alla Taking Back Sunday, una qualità che il trio dimostra di possedere in ampie dosi è la capacità di trovare sempre i cori perfetti per dare quella spinta in più ai brani, evidente ad esempio in un brano come Some Things Never Change, ma in realtà caratteristica davvero positiva di quasi tutte le tracce dell’album.
Scicchi – Occhi diversi stessi lividi
(La Clinica Dischi, 16 settembre 2022)
Scicchi ha vent’anni esatti e ha da poco pubblicato il suo EP d’esordio Occhi diversi stessi lividi per La Clinica Dischi. È un lavoro di cinque tracce piuttosto compatto in termini di durata ma anche di sound, con una notevole eccezione rappresentata dall’opener 4 su 4, brano pop alla chitarra impreziosito da un effetto archi che accompagna l’intero pezzo, creando una sorta di effetto dissociativo fra gli strumenti, amplificato dai vocals che ballano fra l’interpretazione tipica dell’indie nostrano e qualche influenza urban/trap (l’effetto finale è tutt’altro che sgradevole in ogni caso!). 4 su 4 è senz’altro la traccia più particolare dell’EP, che per il resto si assesta su traiettorie maggiormente riconoscibili e nel complesso riconducibili al mondo indie pop italiano. I testi di Scicchi parlano di cose che sembrano in linea con quanto potrebbe riguardare le persone della sua età: storie d’amore e di amicizia, ragazze, serate… canzoni innocue ma che suonano comunque credibili e genuine perché trattano di argomenti che fanno presumibilmente parte del quotidiano del ragazzo che le ha scritte. Tutto sommato si vorrebbe quasi che Scicchi avesse seguito un po’ di più la curiosa scia del primo brano dell’EP, anche solo per proporre qualcosa di maggiormente fuori dagli schemi, ma le sue canzoni pop sono comunque brani molto ascoltabili e diretti, che hanno tutte le potenzialità per fare bene in termini di ascolti e di crescita del proprio pubblico.
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