Gli album del mese: Fontaines D.C., Cosmetic, Prince Daddy and The Hyena & more

Fontaines DC – Skinty Fia
(Partisan Records, 22 aprile 2022)
C’è parecchio fermento attorno ai Fontaines D.C.. La band dublinese è riuscita a mandare sold out addirittura degli show in un Paese deprimente (a livello di concerti alternativi) come l’Italia, e il nuovo disco Skinty Fia ha debuttato al primo posto delle classifiche di vendita in Irlanda e soprattutto nel Regno Unito, segno che la band è decisamente diventata grande. Il gruppo è stato inserito nel calderone post-punk che nell’ultimo quinquennio ha preso d’assalto il panorama rock alternativo, ma a ben guardare di post-punk ce n’è veramente poco in questo terzo album. I Fontaines D.C. propongono un alternative rock a tinte parecchio indie, che a volte sembra pescare a piene mani dal sound degli Smiths; non che sia un male ovviamente. Quando la band è al top della forma (come su Jackie Down the Line o I Love You) regala canzoni intense che però risultano anche piacevoli all’ascolto, con l’accento irlandese marcatissimo del cantante Grian Chatten che contribuisce all’atmosfera dell’album e non può che rendere ancora più simpatica la band. Skinty Fia è un disco molto consistente e che si presta più a un ascolto dalla prima all’ultima canzone che alla scelta di un paio di singoli a caso dalla tracklist: il disco non cambia mai davvero passo, il sound tende a stabilizzarsi su sonorità e atmosfere sempre piuttosto simili, e questa è senz’altro la pecca principale di Skinty Fia; in compenso ci sono brani come In ár gCroíthe go deo, Nabokov o The Couple Across the Way che magari non ti ascolteresti mai di punto in bianco, ma che inseriti nel contesto dell’intera opera assumono un valore molto più alto e artistico. Insomma, forse ci si poteva aspettare un po’ più di varietà nelle dieci tracce che compongono Skinty Fia, ma i Fontaines DC hanno messo insieme un disco preciso e con un’atmosfera ben definita, quasi d’altri tempi. Alla fine sono promossi.
Cosmetic – Paura di piacere
(To Lose La Track, 15 aprile 2022)
Sono arrivati addirittura al settimo album i Cosmetic, ma dall’entusiasmo che trapela dai brani sembra di sentire ancora quei ragazzini che a fine anni ’90 mettevano in piedi una band sull’onda della passione per i Nirvana. Non che i dischi precedenti ci avessero presentato una band appiattita -anzi, Plastergaze (2019) era un album davvero figo- ma qui il gruppo riminese alza tantissimo l’asticella, andando da un lato in una direzione più pop e accessibile che in passato, e dall’altro continuando con le schitarrate bellissime che sanno tantissimo di grunge così come di indie rock 2010 -impossibile non farsi venire in mente le migliori dei canzoni dei Tigers Jaw ascoltando perle come Riopetra o Anni 90 (ditemi che non vi esaltano quei riff di chitarra croccanti e proveremo insieme a capire dove state sbagliando). Su tutta la tracklist forse svetta la traccia 4, ovvero La luce accesa, che da sola vale il prezzo del disco (edizione limitata sul sito di To Lose La Track), ma in realtà è una frase che si potrebbe dire di quasi tutte le canzoni. Piace tantissimo lo spazio sempre maggiore che viene dato ai vocals di Ali(en), creando un’alternanza maschile-femminile (e a volte un duetto) riuscitissima che dà quel tocco finale di musicalità a un disco sostanzialmente perfetto.
Prince Daddy & The Hyena – Prince Daddy & The Hyena
(Pure Noise Records, 15 aprile 2022)
Tre anni dopo Cosmic Thrill Seekers, i Prince Daddy & The Hyena tornano con il proprio terzo album, disco che segna il passaggio a un’etichetta più blasonata come Pure Noise Records e che per qualche strano motivo è self-titled -una scelta che su queste pagine è sempre guardata con sospetto a meno che non si tratti del disco d’esordio. La band, inclusa nel gruppetto dell’emo fifth wave anche se il suo sound ha sempre viaggiato più verso il punk rock, sul proprio album omonimo non dà scossoni sensibili alle proprie sonorità: Prince Daddy & The Hyena è un disco principalmente punk rock, che attinge in parte dall’indie rock e in parte più consistente dall’emo, forse affinando e levigando la produzione e i suoni per presentare un’immagine di sé più “professionale”, anche se i suoni “sporchi” e grattati di fondo permangono sempre. Alcuni dei singoli sono degli ottimi pezzi, come El Dorado, A Random Exercise in Impermanence e anche la ballad Curly Q, mentre altrove il disco fatica abbastanza a decollare e soprattutto a proporre brani che lascino effettivamente il segno. Anche l’idea di chiudere con un pezzo lento acustico dopo il malloppone (francamente evitabile) di nove minuti che è Black Mold sembra un’idea un po’ pesante, perché a quel punto la concentrazione è un po’ andata, e una ballad non aiuta certo a ravvivarla. Prince Daddy non è un brutto disco, e ha dei buoni momenti, ma non pare uno sforzo che valga davvero la pena dei 42 minuti di durata.
Superlove – Colours
(Rude Records, 1 aprile 2022)
I Superlove arrivano al loro primo album full length con questo Colours, fuori per Rude Records. In piena tradizione Superlove, è un disco che fa un gran mischione di parecchi generi diversi, dal post-hardcore al pop punk all’alternative rock di matrice inglese fino all’indie pop alla The 1975; spesso anche all’interno della stessa canzone. Abbiamo così brani più pestati dove strofe leggerine si sfogano in ritornelli pieni di breakdown (o il contrario) come Save Yourselves, World of Wonder o Wanna Luv U, e pezzi più tranquilli e melodici come Baby Bird, Colours o The People You’ll Love. Nel mezzo si sentono influenze principalmente di gruppi inglesi –The 1975 appunto, ma anche Don Broco quando i ritmi salgono o Biffy Clyro e Twin Atlantic– e occasionali passaggi vicini al pop punk dei primi 2000 che avrebbero apprezzato anche i fan dei Fall Out Boy (vedasi World of Wonder). In tutti questi frenetici balzi da un genere all’altro è facile perdere un po’ la bussola e non capire sempre dove stia andando a parare la band, ma ascoltando Colours è anche impossibile annoiarsi. Appena i Superlove troveranno la quadra tra l’unione di influenze e la scrittura di un disco veramente coerente dalla prima all’ultima canzone saranno una delle band più potenti della scena alternativa.
Waxflower – The Sound of What Went Wrong
(Rude Records, 29 aprile 2022)
Un EP fulmineo, che si esaurisce quasi prima ancora di cominciare, è quello che ci propongono gli australiani Waxflower, una delle tante frecce(tte) all’arco di Rude Records. La band è a dire il vero al proprio terzo EP, dopo Together del 2019 e We Might Be Alright del 2021, e ci si potrebbe cominciare a chiedere quando arriverà un full length; ascoltando The Sound of What Went Wrong però si capisce come la band non sia probabilmente ancora pronta per fare l’esordio sulla lunga distanza. Le cinque tracce del disco sono infatti gradevoli e scorrono piacevolmente, ma senza lasciare troppi segni del proprio passaggio. Il pop punk degli Waxflower è a tratti anche molto carico ed energico, ma manca l’elemento della catchiness necessario in questo genere per emergere davvero dalla massa di gruppi che propongono sonorità e melodie molto simili a queste.
Bipuntato – Cose sparse
(V4V, 15 aprile 2022)
Un paio d’anni dopo il suo album d’esordio Maltempo, Beatrice Chiara Funari in arte Bipuntato (precedentemente nota come B.) torna con un secondo disco / mini-album di sette canzoni più un intermezzo che cita Io e Annie di Woody Allen. Musicalmente, Cose sparse si muove su direttrici R’n’B con influssi indie pop; le sonorità sono prevalentemente chill e rilassate, con una quasi totale prevalenza dei suoni al computer che accompagnano la voce graziosa di Beatrice; una formula che non ci appare lontana da quella della bravissima Cecilia. Dopo una falsa partenza con Fumo, Bipuntato spara le proprie migliori cartucce con il terzetto Danni (apprezzabilissima in particolar modo per la vocalità), A largo (di cui avevamo già avuto occasione di elogiare il groove chill ma ritmato) e Salvia (dove l’accompagnamento musicale alla voce di Beatrice si fa veramente minimale). Il feat. con Mèsa sembra un po’ buttato lì, con il disco che gira abbastanza a vuoto nelle proprie ultime tre canzoni, non al livello di quelle della prima metà. L’ascolto di Cose sparse porta via solo una ventina di minuti, per cui anche se non tutte le tracce si mantengono sullo stesso ottimo livello delle migliori, risulta comunque un ascolto piacevole; forse servirebbe qualche ritornello più efficace per fare il salto decisivo di qualità.
Marsali – Bouganville
(self-released, 22 aprile 2022)
Bouganville è l’EP con cui Marsali si presenta sulla scena musicale, anticipato da un paio di singoli come Booking e La versione migliore di noi. È un lavoro che contiene “cinque canzoni che parlano d’amore, di vita e soprattutto di rinascita”, e il suo sound non può che accordarsi con questa descrizione: i brani sono essenzialmente positivi, leggiadri e argentini, ma senza pestare sull’acceleratore per fare festa o esprimere esplosioni di gioia. La rinascita sembra quasi più un risveglio, quando apri gli occhi dopo il sonno con la luce del primo mattino e ti riabitui piano piano al mondo che sta attorno. Lo si sente in Booking con il suo pop acustico ed essenziale; in Smarties con il suo ritornello da musica leggera italiana -che potrebbe passare su parecchie radio nostrane da una Radio Zeta a una Radio Italia- dove il synth è presente ma in maniera leggera, facendo più che altro da sfondo alla voce melodica di Marsali; e soprattutto nella riflessiva closing track che dà anche il nome all’EP, introdotta dal parlato dell’artista che racconta dell’importanza della musica e di fare musica per lei. Si sentono anche influssi più ritmati nel corso dell’EP: La versione migliore di noi parte da una strofa basata su un giro di chitarra quasi emo trap per sfociare in un ritornello più indie pop ricco di bassi, un po’ alla Laila Al Habash ma più accelerato; Non parlo più è il pezzo “ballabile” del disco, con chitarre vagamente funky e un ritornello che ha similarità con la dance di fine anni 2000 (ricordate Inna?). La protagonista vera e propria di Bouganville resta comunque Marsali con la sua voce, che per modo di cantare e per linee vocali potrebbe far pensare un pochino a un’altra artista emergente di sterminato talento come Galea (anche se quest’ultima ha un timbro più profondo). Bouganville è un EP che parla di lei, e dove la musica assolve principalmente la funzione di accompagnare con delicatezza e garbo le parole e le sensazioni raccontate da Marsali.
Svegliaginevra – Pensieri sparsi sulla tangenziale
(La Clinica Dischi, 22 aprile 2022)
Svegliaginevra è al secondo album, dopo Le tasche bucate di felicità dello scorso anno. L’artista de La Clinica Dischi si ripresenta con un agile disco di 10 tracce infarcito di featuring: ne abbiamo uno con Cmqmartina sull’alternative dance di Come ci pare, uno con gli indie M.E.R.L.O.T. e Cimini rispettivamente su (tutto qua) e Odio l’inverno, e addirittura uno con gli Zero Assoluto sulla cantautorale-pop Imperfetto. I brani sono tutti molto pop e orecchiabili, estremamente facili da ascoltare e con testi parecchio relatable, specialmente per la generazione dei millennials o dei Gen Z più adulti -forse fin troppo relatable, vista la quantità di “frasi tipo” da grafichetta social che costellano le canzoni (“ma la gente che vuole?” “E niente…” “Ma che sbatti, siamo matti?” tra le prime che saltano all’orecchio). Una formula insomma che sembra studiata apposta per massimizzare il risultato del disco su Spotify, ma che alla fin fine dopo l’ascolto non sembra lasciare troppo, anche perché i pezzi faticano a fare davvero il salto di qualità, eccezion fatta forse per le ultime due tracce che alzano il livello dell’album.
Francesco Pintus – Inverni
(self-released, 29 aprile 2022)
Un mese dopo l’equinozio di primavera esce Inverni, il disco d’esordio di Francesco Pintus. Ma del resto -ce lo dice lui stesso- “l’inverno non è solo una stagione, l’inverno è uno stato d’animo, è un modo di vivere, di percepire, di guardarsi o di toccarsi. La verità è che ognuno possiede i propri inverni e li custodisce con cura”. Winter is a state of mind, insomma, un po’ come la felicità del noto adagio popolare. Inverni potrebbe essere un disco invernale, di quelli tranquilli e intimi che ascolti quando indossi un maglione e bevi un tè caldo davanti al caminetto acceso: le note riflessive e malinconiche della title track, di Noia, Patologico e Argine ben si accordano con quel momento dell’anno in cui il cielo è costantemente grigino e l’unica cosa che hai voglia di fare è stare al caldo in casa. Potrebbe però benissimo essere anche un disco primaverile, e qui capiamo anche il motivo per cui è uscito a fine aprile: pezzi come Fuori fase, Scacco, Sistemi complessi e Tasche vuote alzano decisamente i ritmi e hanno quel piglio frizzantino da cantautorato pop che si accorda perfettamente a un giro in bici coi primi caldi, sotto il sole tiepido e allegro di maggio (la chiusura con Erisimo -l’erba magica dei cantanti citata da Pierluigi Pardo in una recente telecronaca- è una sorta di mix delle due spinte centrifughe del disco). Francesco Pintus è un cantautore quasi vecchio stampo, che sul suo disco utilizza prevalentemente la chitarra e la voce, con qualche strumento come un basso, una batteria, un piano, addirittura un organo, che fanno capolino qua e là a supporto dei brani negli arrangiamenti; niente synth, beat trappeggianti o vocals modificati con l’autotune, ma proprio per questo la sua musica pare senza tempo, e un disco come Inverni suona attuale e genuino nel 1995, nel 2010 e pure nel 2031 se ci saremo ancora.
La Preghiera di Jonah – E così sia
(self-released, 29 aprile 2022)
All’esordio sulla lunga distanza, La Preghiera di Jonah presenta otto brani raccolti sotto il titolo E così sia, “un disco d’esordio che racconta le guerre di tutti, e che ha lo stesso profumo di fiori regalati a maggio e restituiti in novembre” come lo descrive la band stessa. Si tratta di un disco che si muove su un paio di direttrici: abbiamo brani più legati a sonorità pop rock, specialmente nella prima parte dell’opera, come Respiro (che vede la partecipazione importante di Edda), l’autobiografica e molto toccante Giulio o Come l’ultima volta, in cui prevalgono chitarre sia acustiche che elettriche, spesso con giri frenetici; abbiamo però anche molti pezzi più vicini al synthpop, con un costante synth di fondo che sfuma i brani, variegandoli e indirizzando di volta in volta le melodie, come avviene in Case popolari, Mario, Reality show e anche Milano dove ci sono evocazioni quasi cantautoriali. Non manca poi una puntatina retrò con il brano d’apertura Astinenza che ricorda l’elettronica degli anni ’80. De La Preghiera di Jonah, più ancora che l’aspetto musicale comunque di ottima fattura artistica, colpisce soprattutto la voce, che si stacca dai cantati e dai timbri spesso molto simili che pervadono il tessuto musicale italiano, proponendo un cantato intenso e passionale, quasi viscerale, non sempre perfetto ma proprio per questo ancor più capace di penetrare sotto la pelle e verso la parte del corpo che sente le emozioni.
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