L’apatia generazionale nelle canzoni de I Botanici / Intervista

I Botanici band
di Simone De Lorenzi

I Botanici sono un gruppo di Benevento che si muove tra post-hardcore e post-rock. La band è attiva dal 2015 con due album (Solstizio, 2017 e Origami, 2019) e un EP (Kirigami, 2020), usciti per Garrincha Dischi e prodotti da Bebo de Lo Stato Sociale. Di recente ha pubblicato i singoli apripista dell’imminente terzo album: Grandina, Cose superflue e Diverso/Uguale. Abbiamo intervistato I Botanici in occasione del loro concerto al Cortile Café di Bologna, lo scorso 28 aprile.

Qual è il vostro rapporto con Bologna? In Quarantadue avevate citato il ponte di Stalingrado e nella recente Grandina c’è un riferimento a via Irnerio.

Gaspare: Noi siamo di Benevento, ma dal 2017 al 2020 abbiamo tutti vissuto qua: almeno una volta alla settimana venivamo, perché è base per le date al nord; quando suoniamo al nord veniamo sempre la notte prima a Bologna. È casa e adesso è come essere tornati a vivere.
Antonio: Per me poi lo è proprio letteralmente: vivo qua dal 2016. È casa e spero che lo rimanga.

Ieri è uscito il vostro ultimo singolo, Diverso/Uguale. Chi sono questi “sempre pronti per l’ingiuria, sempre pronti a separare le persone in due fazioni”?

Gianmarco: Non sono delle persone specifiche ovviamente. La frase si riferisce a tante situazioni: molto spesso si tende a non avere la voglia, la pazienza o la capacità di capire che tutto quello che ci circonda non è così semplice come tendiamo tutti quanti a credere. Vedi questa tendenza a dire “quello è cattivo” – al telegiornale, in qualsiasi notizia, c’è sempre il buono, c’è sempre il cattivo… ma non è un fatto recente, non si riferisce all’Ucraina o a Putin (poi ci rientra anche quello, per quanto mi riguarda, però si riferisce a tante cose). La verità secondo me – a parte che non esiste – non può essere solamente da una parte. Non ci sono compartimenti stagni; è tutto molto complesso. Noi abbiamo una presunzione esagerata quando crediamo di poter decifrare questi eventi sociali, umani.

Mi ha colpito molto la frase “Non avere più batticuori”. A pensarci è una cosa tremenda.

Gianmarco: Quella frase è riferita all’amore, ma è anche generazionale: tanti amici vivono in questa fase di totale non avere emozioni, non riuscire più a provare niente.
Stefano: C’è un po’ di apatia. Noi la percepiamo nelle nostre conoscenze – intime, ma non solo. Qualche anno fa magari uno riusciva a emozionarsi anche per una mezza cazzata e ti suscitava tanta gioia, voglia di movimento, di mettersi in gioco… e non è necessariamente collegato alla pandemia, alla chiusura di due anni. Potrebbe essere proprio una dinamica dell’avanzamento dell’età: non essere riusciti entro quest’età a realizzare alcune cose, alcuni passi importanti che poi ti porta a essere un pochino apatico.
Antonio: Veramente: io non mi gaso più per niente.
Gaspare: La verità è che non siamo più abituati, pure tornare a suonare: prima qualsiasi data era una figata, adesso – sarà che non suoniamo da due anni – siamo veramente disillusi.
Antonio: Ci manca un momento di impeto che ci permetta di dare valore anche a queste cose qua. Ci servono un po’ più di abbracci da parte della gente.
Gianmarco: Dobbiamo tornare in mezzo alla gente.

Nelle vostre canzoni è ricorrente quest’inadeguatezza nel diventare adulti. State sopravvivendo (cito Sfortuna) “a questa sfortunata sfida / di avere ventiquattro anni, poi venticinque e poi ventisei”?

Antonio: Quel testo è stato scritto in un periodo un po’ difficile della mia vita, nel quale era abbastanza complicato intravedere qualche sorta di sentiero. C’è questo momento in cui smette di esserci un sentiero prestabilito che uno deve percorrere e si deve un attimo inventare la sua vita. C’è stato un momento di turbolenze nel quale sono successe tante cose simultaneamente e che mi hanno fatto perdere un po’ il controllo di questi binari. Però tutto sommato questa visione pseudo-pessimistica della post-adolescenza tendente all’età adulta, personalmente, è un pochino scomparsa.

È quello schiaffo in faccia che ti arriva quando da anni pensi “allora: adesso faccio questo, poi faccio quello, poi faccio quell’altro” e arriva un momento in cui ti rendi conto che non è poi così facile, perché ci sono delle valutazioni abbastanza importanti da fare, perché possono determinare il tuo futuro nei prossimi anni. E ti devi chiedere davvero “Ma io che cosa voglio fare? Quali sono le cose più importanti per me? Che cosa sono disposto ad abbandonare e che cosa invece è fondamentale mantenere?” Penso di aver spostato il mio punto di attenzione: la ricerca della mia soddisfazione interiore, della mia felicità, l’ho trovata in altro e sono contentissimo di questo. E di aver capito anche che poi tutte queste cose nozionistiche che si hanno sul proprio modo di dover essere – perché qualcuno ti ha detto che avresti dovuto essere così – sono tutte cazzate.

A livello di sonorità, tra gli ultimi tre singoli si percepiscono molte differenze. E l’impressione è quella di un tentativo di sperimentazione anche rispetto ai vostri lavori passati.

Gianmarco: Sicuramente. Toni ci ha spinto di più in questa direzione, noi l’abbiamo assecondato. Abbiamo detto “facciamo una cosa che in Italia non senti troppo facilmente”; poi non ci stiamo ergendo a rivoluzionari…
Gaspare: È più che altro un discorso di non limitarsi a quello che dev’essere lo standard della musica in Italia. Non abbiamo mai pensato “siamo dei pazzi a fare questa cosa qua”: abbiamo detto “ci piace, la facciamo”.
Antonio: Se mi posso permettere di levarmi un pochino di meriti, in realtà qua ascoltiamo tutti tutto. Quello che potevamo fare prima non ci rappresentava chissà quanto, non è mai stato così dal mio punto di vista. Su Origami c’è stato un momento di transizione in cui abbiamo cercato di mantenere qualcosa di vecchio dando anche spazio a delle novità; su questo disco siamo arrivati a un punto in cui ognuno di noi fa il cazzo che gli pare fondamentalmente. Ci sentiamo liberi di esprimerci in un certo modo, ma non in modo forzato perché vogliamo sperimentare. Ci viene da fare questa roba qua e cerchiamo di farla nel modo più onesto e sincero possibile.
Gaspare: Anche la scelta dei tre singoli è stata voluta, per rendere noto il fatto che sarà un disco abbastanza misto, perché comunque ci sono tante cose. Chiaramente facendo uscire un brano come Diverso/Uguale per primo l’ascoltatore poteva aspettarsi un disco un po’ più “quadrato”, diciamo; magari facendo uscire prima Grandina l’ascoltatore avrebbe potuto pensare altro, così come avrebbe potuto pensare di Cose superflue che facevamo il math rock. Allora abbiamo detto “okay, diamo a ogni brano l’attenzione che merita” anche per far capire chi sono I Botanici.
Antonio: Si sta cercando di far capire a chi ci ascolta cosa facciamo senza volergli mettere davanti un pregiudizio. E il modo per farlo qual è stato? Grandina, che alla fine è un brano che ha una continuità concreta con i brani che ci sono prima; però poi fai Cose superflue che è un brano completamente diverso rispetto a quello che facevamo prima; poi fai Diverso/Uguale… insomma, si cerca di raccontare tutte queste cose che ci sono da dire cercando anche di voler dare questa sensazione: I Botanici stanno facendo tante cose diverse – non abbiamo capito ancora che cosa, quindi vediamo che succede.
Gaspare: E ovviamente la scelta è solo una scelta di pubblicazione, non è “facciamo un brano come Diverso/Uguale perché dobbiamo fare una roba diversa perché ce lo siamo imposti”. C’era questo paniere di brani che abbiamo deciso che faranno parte del disco, tutti molto diversi, e abbiamo deciso quale prendere; non abbiamo scritto i brani per dire “facciamo cose diverse”.

Da questo terzo album cosa ci possiamo aspettare?

Gianmarco: Un disco molto eterogeneo, pezzi che hanno un filo conduttore tra di loro ma sono anche molto diversi. Ci sono anche delle canzoni più “standard”. Però non abbiamo voluto averle come singoli anche per non farci fraintendere: facendo un pezzo più orecchiabile, più catchy, più accattivante, avremmo guadagnato forse qualche view in più sul pezzo, però avremmo poi lasciato fraintendere quello che è il disco, dove si fa una discreta ricerca musicale.

Era un tentativo di uscire dall’etichetta “indie”?

Stefano: Un po’ sì.
Antonio: Sì e no.
Gaspare: Ma poi, esiste ancora l’indie?
Antonio: Questa parola in Italia non significa niente. Indie non dovrebbe essere un connotato di un genere musicale in quanto tale, non dovrebbe essere indicativa del sound ma di altre piccolezze. Noi ci siamo trovati a fare musica insieme in questo momento di novità, in cui ci sono stati tutti questi artisti che hanno fatto cose diverse tra di loro, che però venivano chiamati indie. E quindi hanno menato pure a noi con questo nome; che poi sicuramente con Solstizio… ma neanche tanto in realtà, perché se uno si sente Solstizio non è “indie rock” come lo si potrebbe intendere verso un artista straniero. Proprio oggi parlavamo del fatto che non sappiamo bene come ci dobbiamo definire. Questo discorso qua, del genere musicale, che significa?

Nell’EP Kirigami avete collaborato con quattro artisti differenti. Nel prossimo disco ci sarà qualche ospite?

Gianmarco: Featuring non ce ne sono – quantomeno di chiusi. E comunque anche se ce ne fosse solo uno, non sarebbe un cantante.
Gaspare: Una collaborazione semplicemente strumentale. Io penso che la musica di cui fruiamo tutti tramite i canali mainstream sia solo featuring, perché per spingere un artista si va sul featuring. Non che noi non vogliamo spingerci o vogliamo sempre fare gli alternativi. Per me il featuring non è fare il brano con uno per accaparrarmi stream.
Antonio: Quest’esigenza non c’è ancora su questo disco. Non c’è quella cosa che ci spinge a cercare un altro artista per collaborare dal punto di vista di un featuring canonico.
Gaspare: Anche Camomilla, che abbiamo fatto con Checco: eravamo al Kinotto Bar a bere, abbiamo detto “c’è questo pezzo… Checco, tu forse ci arrivi con la voce, perché non lo fai?” È nato così, non “facciamo il featuring con Lo Stato Sociale perché dobbiamo pomparlo”.
Antonio: Invece Kirigami era nato proprio con lo scopo di valorizzare dei pezzi a cui tenevamo. Avevamo questi pezzi in cui credevamo molto su Origami e abbiamo pensato di chiamare Maggio e Tanca a partecipare. E poi con Le Endrigo siamo amici, Giorgieness lo è diventata.


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