Gli album del mese: Sleeping with Sirens, Dry Cleaning, The Early November & more

Sleeping with Sirens – Complete Collapse
(Sumerian Records, 14 ottobre 2022)
Probabilmente non l’avrebbe creduto nessuno che, di tutte le band, proprio gli Sleeping with Sirens ci facessero una grande sorpresa in questo 2022. E invece con il loro nuovo disco Complete Collapse, Kellin Quinn e compagni ci regalano un album insospettabilmente e imprevedibilmente heavy, come non si sentiva -in casa loro- almeno da un decennio. Ma non solo aggressivo, Complete Collapse è anche un gran disco, fatto di canzoni accattivanti, energiche e melodiche; Kellin a livello vocale ci sembra al top, e si esibisce anche in una gran quantità di scream (altra cosa decisamente inattesa). Dopo quel disco terribile che era stato Gossip (2017) nessuno si sarebbe aspettato un ritorno di forma da parte degli Sleeping with Sirens, nemmeno dopo che la band aveva parzialmente corretto il tiro sul successivo How It Feels to Be Lost (2019); Complete Collapse invece sembra essere il disco che forse ci si aspettava dalla band nel 2013, quando dopo il successo dei primi due album era uscito Feel, che aveva cominciato il lento declino del gruppo verso il pop rock.
Dry Cleaning – Stumpwork
(4AD, 21 ottobre 2022)
L’anno scorso con l’esordio New Long Leg i Dry Cleaning si erano imposti in maniera fulminea all’attenzione della critica e anche del pubblico indie/post-punk. Merito dell’interessante lavoro sulle chitarre fatto dalla band inglese, ma anche e soprattutto del peculiare approccio ai vocals della “leader” del gruppo Florence Shaw, che invece di cantare recita i suoi testi, a volte intonandoli ma più spesso con voce distaccata, come se stesse facendo una triviale conversazione al supermercato o sul treno. Sul loro secondo album Stumpwork, giunto ad appena un anno e mezzo da New Long Leg, i Dry Cleaning decidono di non apportare modifiche radicali alla propria formula, però provano a sperimentare un pochino con nuovi suoni e piccole novità. Certi brani si fanno più complessi come struttura, e inevitabilmente anche più lunghi, con un approccio che ci sentiremmo di definire meno accattivante e più ricercato o “artistico”, partendo dalle evidenti influenze dell’indie rock e della new wave britannici; Florence stessa ogni tanto canticchia timidamente qualche melodia invece di recitarla, come accade in Gary Ashby, Don’t Press Me e Conservative Hell -e magari non avrà la voce canora del secolo, però è una piccola novità che aiuta a entrare meglio nei brani e a farli restare impressi. Ad ogni modo, l’attrattiva principale dei Dry Cleaning resta sempre lei, la cui voce, il tono e il marcato accento londinese sono particolarmente gratificanti e soddisfacenti, ai limiti dell’ASMR. Nel complesso Stumpwork è un bel disco, anche se l’effetto novità del debutto comincia un po’ a svanire, e i Dry Cleaning dovranno essere bravi a capire come tenere viva la sensazione di freschezza e di interesse.
The Early November – Twenty
(Pure Noise Records, 14 ottobre 2022)
I The Early November celebrano vent’anni di attività con un disco, giustamente intitolato Twenty, che va a raccogliere dieci brani scritti in varie fasi della storia del gruppo, e per l’occasione registrati e prodotti professionalmente e raccolti in questa compilation fuori per Pure Noise Records. L’iniziativa si profila dunque in primis come un regalo per i propri fan, che hanno così l’occasione di ascoltare brani esistenti da anni ma che non avevano ancora visto la luce del sole; in realtà però Twenty è un disco che funziona benissimo anche di per sé, e se la band non ci avesse spiegato il concept dietro all’album sarebbe potuto anche passare per un disco nuovo di pacca. Certo, alcuni brani -evidentemente scritti nei primi anni 2000- sembrano comunque un po’ datati nonostante la produzione contemporanea, ma è proprio questo lo spirito del disco alla fine. Curiosa la scelta di aprire Twenty con una ballad lenta, ma del resto è un disco di rarità per i fan, per cui ci sta non seguire le classiche logiche da album. Per il resto si può sicuramente notare come ci sia una certa prevalenza di brani pop punk, che rendono Twenty probabilmente il disco più affine a questo genere dell’intera discografia dei The Early November, e anche se magari non tutte le canzoni sono al top, glielo possiamo perdonare vista la natura dell’album. Per noi, un’operazione bella per i fan e perfettamente riuscita in generale.
Tigers Jaw – Old Clothes
(Hopeless Records, 28 ottobre 2022)
Un anno e mezzo dopo il loro ultimo, pregevole album I Won’t Care How You Remember Me, i Tigers Jaw pubblicano un po’ dal nulla questo EP di quattro canzoni chiamato Old Clothes, titolo che ovviamente viene dalla prima traccia ma che potrebbe anche essere inteso come riguardante il disco in generale: i “vestiti vecchi” possono benissimo essere queste quattro canzoni, visto che si tratta a quanto pare di brani registrati durante le sessioni dell’ultimo album e che poi non hanno trovato posto sulla tracklist. Un EP di B-side insomma, da prendere esattamente per quello che è. I pezzi di Old Clothes non sono in effetti i migliori che la band di Scranton possa vantare nella propria discografia, e probabilmente nessuno di loro è all’altezza di quelli presenti su I Won’t Care. La title track e Reckless si lasciano apprezzare per il loro piglio deciso e il ritornello leggermente coinvolgente; più trascurabile la seconda canzone Swear, mentre del tutto soporifera la traccia finale Waltz, unico dei brani cantato da Brianna. Ci sta dare un po’ di lustro anche a canzoni tenute finora in disparte, soprattutto per i fan del gruppo, ma ci sta anche soprassedere su questo EP in attesa di un disco nuovo.
Boston Manor – Datura
(Sharptone Records, 14 ottobre 2022)
Per qualche bizzarra ragione, i Boston Manor nel 2021 avevano deciso di abbandonare il proprio sound alternative rock oscuro e a tratti vicino all’emo per provare a fare gli emuli dei Deftones, come si può purtroppo sentire sull’EP Desperate Times Desperate Pleasures. Un esperimento clamorosamente fallito, e allora vediamo la band inglese che appena un anno dopo cerca di tornare un pochino sui propri passi, pur senza voler ammettere la sconfitta: il nuovo EP Datura ha un sound molto più alternative rock e in parte ripresenta quelle sonorità dark e notturne degli album precedenti, però flirta ancora leggermente con il sound di Desperate Times. Il risultato è che Datura sembra un disco incerto sulla propria identità, con brani che provano a essere intensi (Inertia) ma senza risultare catartici, e pezzi che provano a giocare la carta del ritornello memorabile ma senza essere catchy (Passenger). Certo, peggio di Desperate Times era difficile fare e quindi accogliamo Datura come un passettino microscopico in una direzione migliore, ma i Boston Manor migliori sono quelli di Glue e Welcome to the Neighbourhood, e qui non se ne riconosce che una vaga traccia.
Cactus – Made in Cina
(Hokuto Empire, 28 ottobre 2022)
Secondo EP per i Cactus, nati durante la pandemia e scoperti da Francesco Facchinetti che li ha portati sotto la propria etichetta. Nella loro breve carriera sono arrivati ad aprire agli Eugenio in Via di Gioia – e proprio allo stile di band come loro, Rovere e Pinguini Tattici Nucleari è inevitabile avvicinare quello del gruppo comasco; qui la band ci previene dicendo che “il titolo Made in Cina è la risposta ironica e provocatoria a chi li accosta ad altre realtà musicali”, ma l’accostamento in sé non sarebbe un male, a patto di superarlo e inventare un proprio sound riconoscibile e i Cactus ci riescono più che discretamente. Le sei tracce tengono fede alla loro autoproclamazione a “band dell’indie felice”: indie pop, s’intende – mescolato a tratti con synth ed elettronica e che talvolta scivola nel pop rock –, fatto di sentimenti tardoadolescenziali, riferimenti a una contemporaneità quotidiana (“Ancora scolo i ravioli in brodo, vivo di Maps e d’Aranzulla”) e citazionismo a profusione (il gattino Virgola, Mushu di Mulan, la principessa Jasmine di Aladdin). I brani parlano del diventare grandi, degli esami all’università e soprattutto (immancabilmente) d’amore; amore che al contrario di certi artisti indie non giunge a esiti depressi o autolesionisti: la felicità dichiarata – che si traduce in ritmi sostenuti, energici e scoppiettanti – diventa vero motore vitalistico del disco. [Simone De Lorenzi]
Deep Town Diva – Royal Flush
(self-released, 4 novembre 2022)
I Deep Town Diva si erano presentati ufficialmente sulle scene con il singolo festaiolo e scatenato Jager of Jager, che aveva un sound in parte riconducibile a quello di band come Hardcore Superstar e Crashdiet, ma poi ci avevano sorpresi con il secondo singolo, una power ballad heavy, cadenzata e possente come Wind Back. La stessa varietà -anzi, una varietà ancora maggiore– la ritroviamo sul loro EP d’esordio, questo Royal Flush che tradotto dall’inglese vuol dire “scala reale” e che è in sostanza presentato come una cinquina di canzoni che vanno a comporre la royal flush in mano alla band. Cinque brani, ognuno dei quali esplora sonorità diverse fra loro, arrivando addirittura alla ballata blueseggiante (Miles and Bullets) e passando per l’hard rock e l’heavy metal su Rising Star e Snake Bite. Se nella musica pop e rock i generi musicali oggigiorno sono sempre più sfumati e spesso accavallati l’uno sull’altro all’interno delle stesse release, si può dire che un’operazione in parte simile l’abbiano condotta i Deep Town Diva a livello di musica più heavy con questo disco. La scelta può essere rischiosa perché a qualcuno potrebbero non piacere tutte le tracce del disco, però ci sentiamo di dire che sia un azzardo ben riuscito: Royal Flush intrattiene per tutta la sua durata e spiazza anche un pochino l’ascoltatore grazie alla sua diversità, generando a ogni traccia quel pizzico di sana curiosità di scoprire che cosa riserverà il brano successivo. Di livello anche la produzione tirata e cristallina, che fa risaltare benissimo ogni strumento dell’album, e la performance vocale, di importanza assolutamente non secondaria grazie anche a certi acuti niente male del cantante Andrea Compagni.
Nube – Occhi cinepresa
(Revubs Dischi, 28 ottobre 2022)
Fuori per Revubs Dischi, Occhi cinepresa è l’EP d’esordio (o il minialbum d’esordio, visto che si tratta di otto canzoni) di Nube. Di lui non sappiamo tantissimo, se non che “vive nel suo film” -come recita la sua bio su Instagram- e non potrebbe essere altrimenti con un EP che si chiama in questo modo. Se Occhi cinepresa è il suo primo film, si tratta di un film di carattere prevalentemente indie pop che si concede qualche divagazione in tracce più “da club” (Dejavu) ma anche in pezzi più romanticoni come la ballad pop 1998. Nel complesso, quello che Nube ci offre è un disco piuttosto compatto, con brani decisamente corti (non si supera mai la soglia dei tre minuti) e pezzi che affrontano tematiche legate ai rapporti sentimentali e all’approccio alla vita di tutti i giorni di un ragazzo di questi tempi. Mancano, a nostro avviso, i ritornelli veramente efficaci e memorabili, che in un disco pop dovrebbero fare la differenza, mentre la produzione è di livello e dà anima ai brani, per quanto il sound sia quello ormai un po’ omologato a quanto si trova sulle playlist settoriali di Spotify. Un EP che fatica leggermente a lasciare il segno, anche per i testi un po’ generici e a tratti astratti.
Miller’s Wave – Outdoor Recreation
(self-released, 26 ottobre 2022)
Esordio assoluto per il progetto Miller’s Wave, che con il suo Outdoor Recreation presenta “un concept album dove tutto ruota intorno ai ricordi e alla fragilità dell’infanzia, alla voglia di rientrare in contatto con quello che eravamo”. Facendo un discorso a parte per Keeping All Your Toys, che è l’unica traccia del disco dove si sentono delle voci (uno speaker che presenta un’analisi sul ruolo della TV nella società contemporanea, e il dialogo con un bambino che deve rispondere a una serie di domande in cui scegliere se rinunciare per sempre a guardare la televisione o a una serie di cose sempre più profonde e importanti, dai propri giocattoli, ai propri amici, a parlare con il proprio padre per sempre) e che è anche la più inquietante e distopica, si tratta di un disco interamente strumentale. La maggior parte dei pezzi ha durate estremamente brevi: I Am a Friend si chiude in trentanove secondi; l’opener Sundays in 1 minuto e 33; Primitive Souls due minuti e così via, configurandosi quasi come canzoni-frammento, che appaiono e scompaiono con tanta velocità che si fatica a coglierne l’essenza vera e propria, anche se alcuni di questi brani sembrano perfetti per fare da musica in qualche scena cinematografica grazie alle atmosfere che sanno sviluppare. Altrove invece il disco si fa più disteso: Hello Outside dura 8 minuti e 25 secondi, la chiusura Flourish in Our Homes ne dura 7 e 27; sono ovviamente brani che non possono accontentare tutte le orecchie e le spanne di attenzione, ma che forse sono anche le tracce più significative di questo disco, quelle che sviluppano appieno quel sound e quelle atmosfere che nelle brevi tracce precedenti si potevano solo intravvedere.
Il passo di questo disco non è mai veloce e upbeat; Miller’s Wave preferisce riflettere, ricordare, pensare e anche sognare con i propri pezzi, e chiede all’ascoltatore di chiudere gli occhi e viaggiare con la mente in luoghi accantonati in qualche angolo del cervello, sopiti, e forse anche in posti nemmeno mai visti, a metà fra lo spazio ignoto e qualche mondo della fantasia dove i colori prevalenti sono il nero, il verde smeraldo e il grigio antracite (sì, detta così sembra che sto parlando di Minas Morgul, ma non fatevi per forza suggestionare da quello che dico io). Chiaramente Outdoor Recreation è un disco per pochi: non è cantato, è interamente elettronico, è tendenzialmente lento e meditabondo; il pubblico di riferimento non può che essere di nicchia, ma nella nicchia è un disco che può incontrare favore specialmente grazie ai brani dove sviluppa tutto il proprio potenziale evocativo; la sensazione è che Miller’s Wave sia ancora parzialmente incompiuto e che una volta trovata la giusta calibrazione fra la voglia di sviluppare le proprie idee e quella di proporre brani d’impatto anche immediato, possa essere una forza importante all’interno del panorama elettronico.
Acate – Acate +
(Piuma Dischi, 12 agosto 2022)
Disco d’esordio (anche in questo caso si ripropone l’ormai vexata quaestio se considerarlo un mini album o un EP lungo, visto che i brani sono sette, ma temiamo sia a questo punto diventata una distinzione inutile per vecchi nostalgici) per Acate, artista cresciuto nel Varesotto che si definisce “uno scienziato un po’ matto che sta facendo ricerche scientifico-filosofiche-simpatico-mimetiche insieme al suo fedele compagno, il Roland sp404”, e che su Instagram si fa chiamare acatello, forse perché di nome fa Francesco Aiello. Il suo disco si chiama Acate + (come il Latte + di kubrickiana memoria, poi ripreso in varie occasioni in nomi di band, di locali e di canzoni e non solo) ed è un ascolto piuttosto fulmineo: tutti i brani stanno sotto i tre minuti di durata, e hanno quindi il potenziale perfetto per eventuali rotazioni radiofoniche o inserimenti in playlist di tendenza, anche perché il sound che Acate ci propone è piuttosto ritmato e upbeat, sicuramente molto accessibile per tutte le orecchie e per questo dal pubblico teoricamente sconfinato. A livello di sound ci troviamo influenze piuttosto disparate: ci sono pezzi essenzialmente pop con sonorità funky, tipo Tipo o Arbre magique, sonorità simil-R&B come in Argentina 86, pop e synthpop a base di elettronica in canzoni quali Livido blu e Sorbonne, ma c’è pure spazio per un finale più disteso e respirato, con la ballad malinconica Annie e la ragionata Buttarmi, un po’ come quando verso la fine di una serata di bagordi ci si spiaggia su un divanetto a prendere fiato e riposare le membra stanche.
La varietà dei suoni è senz’altro uno degli aspetti più positivi di questo disco, sia perché su Acate + ci si può trovare bene o male almeno un pezzo che si confaccia ai propri gusti, sia perché in questo modo l’album non stanca e mantiene l’attenzione viva e la curiosità accesa per sapere dove l’artista vorrà andare a parare sul pezzo seguente. I testi sono spesso piuttosto ironici e leggeri, a volte anche vagamente surrealisti come in Argentina 86, ma sicuramente funzionano sia nell’ambito del tono informale dei brani, sia vedendo il personaggio di Acate. Se vogliamo trovare un ambito su cui forse Acate mostra margini di miglioramento è la capacità di scrivere ritornelli che facciano presa immediata e restino in testa (possibilmente per non uscirne più): quelli presenti in Acate + sono orecchiabili e funzionano bene all’interno delle canzoni, ma -almeno secondo noi- per la musica pop il ritornello perfetto è quello che ti resta in mente già al primo ascolto. Se prossimamente Acate riesce a imbroccarne qualcuno, può diventare una forza con cui fare i conti sulla scena pop.
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