Gli album del mese: Enter Shikari, Andrew McMahon, Waterparks & more

Enter Shikari – A Kiss for the Whole World
(SO Recordings/Silva Screen Records, 21 aprile 2023)
Nei loro più di quindici anni di carriera, gli Enter Shikari ci hanno regalato dei dischi che sono un capolavoro (Common Dreads, A Flash Flood of Colour, ma anche The Spark), altri magari meno forti (Take to the Skies o The Mindsweep su tutti), ma sempre comunque interessanti, pieni di vitalità e di forza creativa. Arrivati al loro settimo album, A Kiss for the Whole World, gli Enter Shikari sembrano avere una battuta d’arresto nel proprio percorso artistico. Già dai singoli che l’avevano anticipato si sentiva che quest’album aveva qualcosa che mancava rispetto ai precedenti, a partire dal sound: gli Enter Shikari hanno sempre avuto un suono pieno e potente, spesso ricco di synth (anche oltre i limiti del tamarro, vedi Zzzonked), ma mai leggerino come quello che regna nella maggior parte dei pezzi di questo disco; la sensazione “di getto” è che manchi almeno una chitarra per rendere veramente pieno e soddisfacente il sound di questi brani, e non basta il basso cattivo di Bloodshot per compensare questa mancanza. Può essere che gli Enter Shikari abbiano voluto fare un disco più pop e semplice, specialmente dopo il barocco Nothing Is True and Everything Is Possible (2020) che aveva visto addirittura un pezzo suonato da un’orchestra e aveva sonorità epicheggianti e ambiziose, però l’impressione è che nel complesso ne sia uscito un album un po’ fiacco, sicuramente privo del mordente che ha sempre caratterizzato il gruppo inglese. Il giudizio non può essere totalmente negativo, perché comunque ci sono brani che si fanno apprezzare (dalla title track a Leap into the Lightning, ma pure il deep cut Goldfish), e la band ha sempre la capacità di scrivere melodie piuttosto accattivanti, però A Kiss for the Whole World appare il disco meno interessante della carriera degli Enter Shikari sin qua.
Andrew McMahon in the Wilderness – Tilt at the Wind No More
(Nettwerk Music Group, 31 marzo 2023)
“Un’opera d’arte è buona se è nata da necessità”, scriveva Rainer Maria Rilke nelle sue Lettere a un giovane poeta. E in effetti molti dei più grandi capolavori, nella letteratura, nella pittura, nella musica nascono da situazioni di tensione, di disagio, se non addirittura di tragedia per il loro autore; e spesso infatti artisti a cui la vita gira finalmente per il meglio finiscono con l’esprimere opere d’arte che sono magari ottime a livello tecnico, ma che non comunicano le stesse emozioni, la stessa intensità e la stessa passione delle loro opere più tormentate. Andrew McMahon nella sua canzone Little Disaster dichiara chiaramente che “Everything I need I have it”, e tenderemmo a collocarlo nella seconda categoria di artisti che abbiamo descritto qui sopra. Eppure il suo Tilt at the Wind No More dimostra che si può fare un gran bel disco anche partendo da una situazione di pace e di gratificazione personale. Certo, quando si ha il talento di cui dispone l’ex mente dei Something Corporate e dei Jack’s Mannequin è tutto molto più facile. Anche questo disco mette in fila una serie di grandi pezzi pop rock, come Stars, Lying on the Hood of Your Car o Little Disaster, e pure una ballatona da lacrimuccia quale Nobody Tells You When You’re Young, che dimostrano come le capacità di songwriting di Andrew siano sempre di altissimo livello. È un disco mediamente più pop di altri suoi lavori, e anche il pianoforte recita un ruolo meno primario in favore dei synth, però tutto sommato non ci possiamo mai lamentare di quello che ci regala il nostro garage band king.
Waterparks – Intellectual Property
(Fueled by Ramen, 14 aprile 2023)
Nel 2016 gli Waterparks erano esplosi con forza nella scena pop punk con quel gran disco che era Double Dare. Dopodiché la band ha sostanzialmente raccolto i frutti di quel successo pubblicando dischi più leggeri e meno incisivi, ma sempre caratterizzati da buoni riscontri di pubblico. Nel frattempo hanno anche girato tutte le etichette d’America, passando da Equal Vision a Hopeless a 300 a Fueled by Ramen, casa discografica che pubblica ora questo Intellectual Property (ricordiamo che i loro dischi iniziano con una lettera in ordine alfabetico, quindi al momento sono arrivati alla I, il che vuol dire che hanno davanti ancora almeno una quindicina di album prima di sciogliersi). Potremmo definirlo il disco più pop del terzetto texano, ma in realtà anche i precedenti dischi non è che fossero particolarmente heavy; è la sensazione dei brani che sembra sempre più leggerina, frivola e poco incisiva, più che il sound in sé. C’è anche un uso eccessivo del falsetto che risulta fastidioso alla lunga. Se dopo Double Dare gli Waterparks avevano pubblicato dischi non memorabili ma pur sempre gradevoli all’ascolto, a questo giro anche l’album in sé pare di fattura piuttosto scadente.
Wednesday – Rat Saw God
(Dead Oceans, 7 aprile 2023)
La critica musicale, angloamericana ma pure in parte quella italiana, in queste ultime settimane è impazzita per il nuovo disco degli Wednesday, che a leggere certe recensioni pare sicuramente destinato a rientrare nelle classifiche di fine anno di parecchie pubblicazioni, magari anche ai primissimi posti. Ascoltando Rat Saw God noi però rimaniamo abbastanza perplessi nei confronti di questa sfilata trionfale allestita da magazine e testate online. Karly Hartzman ha una bella voce e un sicuro carisma, che traspare anche dai testi e dal modo in cui sono scritti; sul disco ci sono un paio di pezzi davvero forti (in primis Chosen to Deserve, ma anche la lunghissima Bull Believer); ma in generale l’ascolto dell’intera opera sembra un po’ fiacco. Buona parte dei brani non ha tratti distintivi, né parti trascinanti o ritornelli memorabili, appiattendosi su un indie rock un pochino più sporcato da influenze post-grunge e heartland rock decisamente americane. E pure Bull Believer se vogliamo diventa veramente riconoscibile ed esaltante solo nella seconda metà, quando la cantante comincia a “dare in escandescenze” producendo urla stonate e a tratti quasi isteriche. Mettendo insieme tutto l’impressione è quella di un disco comunque accettabile, suonato e prodotto sicuramente molto bene, che si ascolta pure volentieri, ma che non offre particolari spunti al di là di quelle due tracce su dieci.
Beatrice Pucci – Indietro
(self-released, 14 aprile 2023)
Dall’anno scorso a oggi ho a più riprese parlato di Beatrice Pucci, cantautrice di Civitavecchia che mi ha onestamente rubato il cuore con la sua musica delicata, triste e in punta di piedi. Le colline dell’argento è stato il nostro EP dell’anno per il 2022, e ora l’artista arriva al disco d’esordio con questo Indietro, album registrato, prodotto e mixato tutto in autonomia (questo sì che potrebbe fregiarsi dell’etichetta di “bedroom pop”!), composto di dodici tracce che mantengono tutto il carattere e la purezza dell’EP. Dico subito che (più di) qualcuno troverà il disco direttamente noioso, perché l’andamento dei brani è lento, riflessivo e intimista, e le sonorità sono minimali come la copertina: l’intero lavoro è basato principalmente sulla voce di Beatrice, accompagnata da delicate chitarre e da occasionali percussioni. Sono sicuro che Beatrice lo sappia benissimo e abbia consciamente fatto un album che non a tutti può piacere, cosa che per me è una grande dimostrazione di integrità artistica. Musicalmente, Indietro mi ha fatto pensare all’opera di Pedro the Lion, cantautore che trovo artisticamente affine nonostante i decenni che separano le due traiettorie artistiche. Non c’è un vero e proprio singolo o una canzone che spicca sulle altre, nel senso che il mood è talmente intimo e le sonorità così essenziali che i brani si susseguono creando un’atmosfera delicata, quasi un incanto che si ha paura di spezzare, più che restare impressi per un ritornello accattivante o un riff trascinante. Poi personalmente posso dire di avere qualche brano preferito, come il brano di lancio Solo il tempo, o i brani Incendio, Compagnia e Festa, ma è l’intera esperienza a rendere speciale quest’album, che è il classico disco che si vorrebbe possedere in vinile (just saying, eh).
Iofortunato – La guarigione
(self-released, 27 aprile 2023)
La guarigione è il primo album da solista per Fabrizio Fortunato, alias Iofortunato, artista palermitano che negli anni ha avuto importanti esperienze in gruppi come Yes/se:f, Drywall e Cum Moenia, e che per il suo esordio in autonomia ha potuto collaborare con un maestro come Roberto Cammarata, noto produttore siciliano nonché uno dei nomi dietro al successo de La Rappresentante di Lista. La mano esperta si sente tutta: se i brani in sé sono di base forti, la produzione aggiunge tutto un mondo in più che li proietta su un’altra dimensione. Di questo disco personalmente mi fanno impazzire gli arrangiamenti, sempre ricercati, inaspettati, creativi, mi verrebbe da dire “barocchi” se questo termine non avesse anche una connotazione negativa. Lo si sente in tutti i brani, ma in Rosse di fumo, CNC e Giorni maledetti si tocca probabilmente l’apice -e sono anche i brani che arrivano più duri a colpire la mente e l’immaginazione. Iofortunato fa, di base, musica pop, però è un pop di difficile collocazione: poggia saldamente su un tessuto elettronico fatto di synth, ma difficilmente si potrebbe definire “synthpop” (quantomeno per il significato che diamo attualmente al termine); è pop ma allo stesso tempo di non immediata fruizione: necessita di un ascolto (anzi, più ascolti possibilmente) attento, con l’orecchio teso non solo a captare i messaggi personali e passionali dei testi ma anche la ricchezza dei brani; privilegia l’evocatività dei brani alla mera e facile catchiness. In sostanza La guarigione è un ascolto che magari non è per tutti, ma che sa premiare e dare davvero tante soddisfazioni a chi ha la curiosità e l’attenzione di lasciarsi trasportare dai suoi pezzi.
Stegosauro – Stegosauro
(To Lose La Track, 31 marzo 2023)
Mia madre dice che la loro musica è bella ma “non si capiscono le parole”. Self-titled d’esordio per gli Stegosauro, giovane band vicentina che sembra avere chiara da subito la direzione verso cui dirigersi. Il quartetto guarda al Midwest emo, al math rock e allo screamo; la commistione di elementi che propone – per la quale sono accostabili ai Leita, con cui d’altronde condividono batterista e chitarrista – funziona e convince, muovendosi con coerenza attraverso le sei tracce e formando un EP compatto. La copertina è bellissima e finire un disco con il miagolio di un gatto (Briscola nei credits) è una mossa di uno stile spaventoso; la canzone poi si chiama Buonanotte Raga, ma sono geniali anche i titoli di Jap‘n Cazz e Van Houten. Lo stegosauro era uno dei miei dinosauri preferiti da bambino, gli Stegosauro sono diventati una delle mie band preferite di adesso. [Simone De Lorenzi]
PainKillers – NEW END
(BeNext Music, 31 marzo 2023)
Fin dal titolo e nella copertina NEW END esprime una contraddizione: questo EP rappresenta sì una nuova fine, ma che dà il via anche a un nuovo inizio. È una fine perché racconta la condizione esistenziale di una gioventù stremata, al termine della sua corsa post-adolescenziale. È un inizio (anche) perché per i PainKillers segna il passaggio del cantato all’italiano: un abito che indossano in maniera più naturale rispetto ai precedenti lavori in inglese. A livello di sound, convincono quando mantengono il loro rock alternativo aderente a un buon pop punk (Perso nei guai e Rotto dentro), mentre rischiano qualcosina nel guardare a determinate influenze: trappeggianti, come nel caso di Gioventù bruciata, che recupera solidità solo nel ritornello; più pop su Dimmelo, chiusa al disco un po’ debole. La svolta, in ogni caso, funziona e il gruppo brianzolo può contare su questa neo-acquisita sicurezza. E da qui ripartire, per tanti altri nuovi inizi. [Simone De Lorenzi]
Florilegio – Sogno abissi notturni
(self-released, 28 aprile 2023)
A una prima distratta occhiata all’artwork e al suo immaginario stereotipico di una psichedelia quasi esagerata potremmo aspettarci un disco psych-rock tout court. “Tuffandoci” poi (permettetecelo) negli Abissi di Florilegio ci rendiamo conto che il disco suona molto più anni ’10 che anni ’70. Sicuramente i jeans a zampa (che non credo la band indossi davvero) vestono non solo cover e immaginario ma si ritrovano in determinate scelte di arrangiamento e di suono colorando un disco indie pop contemporaneo di un’affascinante patina vintage. Paradossalmente un disco dal mood musicalmente molto più caldo e caciarone di quello che potremmo aspettarci da dei “Notturni”, in cui l’aplomb da poeta maledetto, evocato in modo credibile e interessante, rimane solo nei testi che mostrano il vero astio e la vera rivalsa di un disco che esorcizza il lato più maledetto di ogni giovinezza sofferta. Infine il cuore concettuale del disco, a suo modo uno e trino nei tre elementi del titolo, viene poi condensato nello skit poetico di Abissi (lo stampo delle catastrofi), in cui Ruben Camillas (metà degli indimenticabili Camillas) mai così serio e così inquietante si fa profeta dell’apocalisse per un paio di minuti.
Flavio Zen – Mushin
(Black Tempura, 21 aprile 2023)
A 3 anni da ultimo album Sì, come no, torna Flavio Zen con un disco intitolato Mushin, che è “quello stato mentale simile all’illuminazione raggiunto grazie alla meditazione e la pratica delle arti marziali”. Una metafora con cui l’artista vuole “segnare la fine del mio percorso di crescita arrivando a consapevolezze personali e musicali più profonde”. I riferimenti alla cultura buddhista (a partire già dal nome d’arte di Flavio) e giapponese sono molteplici, come testimoniano anche titolo quali Shinobu, Kotodama e Om Mani Padme Hum, ovvero “O Gioiello del Loto” in sanscrito, dice Wikipedia. Flavio Zen è di base un rapper, ma la definizione non può che stargli stretta, perché nei suoi pezzi si sentono influenze molto più diverse e sicuramente più ampie della sola scena hip hop (che se vogliamo è interamente abbracciata solo nella traccia finale Con i beats, parecchio gangsta, dove Flavio flexa il fatto che lui è trv e ha successo, visto che con i beats si paga la spesa). Ci sono pezzi condotti principalmente al pianoforte come l’opener Shinobu, altri dove Flavio Zen sembra avvicinarsi al mondo dell’emo rap americano (vedi Om Mani Padme Hum o Sotto la mia pelle), ma anche brani piuttosto smaccatamente pop come Sciamani che è molto danzereccia. Particolare il ricorso al falsetto, che nel mondo del rap -per quel poco che lo conosciamo- non è una tecnica super utilizzata, e che invece l’artista usa a più riprese, culminando nel ritornello di Kawaii tutto rappato in falsetto. Chiudono l’album le versioni acustiche di Sciamani e Sotto la mia pelle, e una versione “original beat” di Kotodama, a metà fra le bonus track e dei completamenti di un disco di sette tracce. Qualsiasi cosa (o quasi) cerchi di innovare, o almeno apportare delle modifiche alla formula prevalente nel proprio genere è senz’altro ben accetta in un mondo dove proporre contenuti diversi e originali è percepito come rischioso e poco desiderabile, spesso anche da parte delle realtà stabilite nel mercato, e Flavio Zen ha senza dubbio la voglia e il coraggio di mettersi in gioco con un disco che non segue completamente le regole. Questo è indubbiamente un grande merito di Mushin.
Potete leggere tutte le nostre recensioni a questa pagina.