Gli album del mese: Cara Calma, Gomma, Billy Talent & more

Cara Calma – Gossip
(Piuma Dischi, 21 gennaio 2022)
Cinque anni fa gli Sleeping with Sirens hanno pubblicato un disco intitolato Gossip in cui rivoluzionavano il proprio sound ed era venuta fuori una cosa terribile. Oggi i Cara Calma pubblicano un disco intitolato Gossip! (peraltro con una copertina concettualmente non tanto diversa da quella dell’album citato sopra) in cui confermano il proprio sound alternative rock con influenze post-hardcore ed emo, ed è venuto fuori un ottimo album. Il quartetto bresciano per il suo terzo lavoro in studio ha deciso di evitare voli più o meno pindarici verso sonorità sperimentali, peculiari o anche semplicemente più pop o mainstream, concentrandosi su quello che sa fare bene: fare musica suonata, con testi catartici e cantati con emozione. Esattamente la ragione per cui questa band è diventata negli ultimi anni la capofila del movimento alternative rock italiano che raccoglie la torcia dai Ministri per illuminare il percorso alle nuove generazioni. Certo, qua e là si sente che la band ha cercato di dare qualche tocco di raffinatezza e di grandeur in più al proprio sound (vedasi la sezione di archi in Kernel che crea un effetto epico “da colonna sonora”), ma è quello che ci si può aspettare da un disco che dovrebbe consacrare la band e mostrarne la “maturità” (tra virgolette perché non stiamo comunque parlando di musicisti alle prime armi visto il passato di ognuno di loro). Nota di merito finale per i due singoloni VMDV e soprattutto Altalene, forse le canzoni più anthemiche che la band abbia pubblicato sin qui e sicure protagoniste di esaltati singalong ai prossimi concerti della band (al momento sono previste date ad aprile a Torino, Milano, Brescia, Bologna e Roma).
Andreacarlo – Alle 4 del mattino
(3 dicembre 2021, Maine Wine Records)
Una neonata in copertina ma non nuota inseguendo una banconota dentro una piscina; sta semplicemente e innocuamente a gattoni su un divano di velluto. E in effetti la musica di Alle 4 del mattino riflette l’intimità e la pacatezza evocate dall’artwork: lontano dalle schitarrate rabbiose e dai vocals sofferti di Nevermind, l’EP che abbiamo di fronte naviga le placide acque di un cantautorato “chitarra e voce”, rispettoso dei grandi classici che la tradizione italiana ha disseminato negli ultimi sessant’anni ma anche voglioso di esplorare mari tutti personali. Dall’opener Il mare a Milano alla closing track Il mondo di domani, Andreacarlo, qui alla propria prima prova in studio sulla media lunghezza, dà voce ai sentimenti più profondi scaturiti nell’anima con la nascita della figlia Stella, coincisa peraltro con l’inizio del lockdown 2020. Tra immagini poetiche e anche piuttosto peculiari (penso ad esempio al “gorilla abbandonato su Marte” in Il mare a Milano, dalle tinte quasi kubrickiane), riff melodici e una voce che trasmette serenità, Andreacarlo mette a referto un lavoro prezioso e di valore, dimostrando una sensibilità non irrilevante nel perseguire melodie orecchiabili e testi significativi, magari lontano dalle richieste mainstream del mercato attuale ma sicuramente vicino alla necessità artistica del cantautore.
Peter Lake – Blue
(self-released, 14 gennaio 2022)
Dopo Yellow e Red, è il turno dell’EP Blue per l’eclettico artista newyorkese Peter Lake. Peter avanza a ritmo di EP da tre canzoni ogni qualche mese, e in ogni lavoro si dà un tema differente da seguire; nel caso di Blue, si tratta di un disco che “esplora alcuni dei momenti più preziosi nella vita”. Troviamo così una canzone come Shadow Games che si crogiola nella sensazione di innocenza ma anche di vitalità che possiamo osservare nei bambini, il tutto in un brano felice e upbeat impostato su un ritmo reggaeton ma con un sound pop rock / alt pop; più spinto con i bassi il pezzo di apertura, Sugar It Lightly, che con le sue sonorità alt pop potrebbe ricordarci alcuni brani dei Twenty One Pilots dal primo disco o anche dall’ultimissimo Scaled and Icy. Chiude l’EP la brevissima Ghosts in Me, una traccia acustica di meno di due minuti che mira a elaborare il lutto e la perdita. Ancora una volta Peter Lake in sole tre canzoni esplora più sonorità differenti, rinunciando a far sì che l’ascoltatore sappia già cosa aspettarsi da ogni sua pubblicazione, e inoltre apprezziamo anche la coerenza estetica del progetto impostato sull’esplorazione di volta in volta di colori diversi, opportunamente rappresentati anche sulle coloratissime copertine dei suoi EP.
Billy Talent – Crisis of Faith
(Spinefarm Records, 21 gennaio 2022)
A quasi sei anni dal dimenticabile Afraid of Heights, tornano i Billy Talent con Crisis of Faith, loro sesto album nonché terzo ad avere un titolo vero e proprio senza i numeri romani (per intenderci). La band è nel frattempo passata da Universal a Spinefarm Records, e il cambio di label sembra aver portato una certa vitalità a un gruppo che a un certo punto pareva fossilizzato su sound logori e sfiduciati. I singoli a dirla tutta non lasciavano sperare in un disco particolarmente brillante, invece ci troviamo nelle condizioni di poter affermare che Crisis of Faith non ha sicuramente singoloni alla Red Flag, Try Honesty o Fallen Leaves, ma è un disco parecchio compatto, piuttosto vivace e poco noioso. A livello di sound sembra un Billy Talent III un pochino più upbeat: pochi pezzi “pop”, più chitarre aggressive e atmosfere incalzanti e minacciose, ma anche un brano (End of Me) con Rivers Cuomo che potrebbe fare da gemello ad Island in the Sun e una sorta di epopea musicale (Forgiveness I + II) come opener del disco costituita dall’unione di due brani con qualche influenza rock classico. Pregevole la performance vocale di Ben Kowalewicz, per il quale gli anni non sembrano passare in alcun modo a giudicare solamente dalla voce. In Crisis of Faith non troviamo una versione particolarmente innovativa dei Billy Talent, che del resto non hanno mai fatto della sperimentazione la propria bandiera, e probabilmente il disco non ripeterà affatto i fasti dei primi tre (né merita di ripeterli), ma quantomeno l’album ci restituisce una band rinvigorita, con qualche ottimo passaggio che potremo sentire live per alternare le solite canzoni che la band suona ormai da una quindicina d’anni.
Galea – Come gli americani al ballo di fine anno
(Sugar, 21 gennaio 2022)
Galea è lo pseudonimo (di origini storiche) sotto cui si cela Claudia Guaglione, cantautrice classe 2000, talento fulgido di Barletta, tra i migliori songwriter della sua generazione. Galea ha pubblicato i suoi primi singoli tra il 2020 e il 2021, il migliore dei quali -per noi- Ragazzo fuori moda, e ben presto è stata intercettata dall’etichetta Sugar, che non ci ha pensato due volte ad accaparrarsi le qualità dell’artista prima che a qualcun altro venisse la stessa idea. Come gli americani al ballo di fine anno è il suo primissimo EP, anche se delle cinque canzoni nella tracklist solo due sono davvero inedite, ma è un discorso comprensibile considerato che l’artista è un’emergente che sta muovendo i propri primissimi passi e ha voluto quindi raccogliere quanto pubblicato sin qui in un’opera più completa. Va detto che Voglio solo cose belle e Soffrire bene, i due inediti, sono di livello assoluto, anzi entrambi i brani rappresentano probabilmente un passo avanti rispetto alle tre canzoni già ascoltate -che pure partivano da solidissime basi. Il sound si muove fra la musica (indie) pop e la musica leggera della tradizione italiana, senza inventare nulla ma risultando molto fresco e al passo coi tempi, ma quello che ci piace davvero tanto di Galea è la sua voce che esce dallo standard della musica mainstream italiana, grazie al suo timbro profondo e caldo immediatamente riconoscibile, che comunica subito con le parti del cervello deputate a provare il piacere sensoriale derivante dal contatto con ciò che è bello. Il grande controllo delle corde vocali peraltro permette a Galea di svariare anche con un convincente falsetto che fa sì che i brani siano tutti differenti, ognuno suonato e soprattutto interpretato nella propria unicità. E se magari i testi a tratti tradiscono la giovane età dell’artista, l’excitement di trovarsi di fronte a un talento così evidente più che compensa qualsiasi difettuccio si possa voler trovare in questi cinque brani. Il limite è il cielo per quest’artista, come dicono gli inglesi: ce la vediamo sul palco di un Ariston, nelle principali rotazioni radiofoniche e playlist di tendenza, nei palazzetti così come in una piccola venue intima per un raccolto pubblico di amanti della musica che non passa in TV. Noi restiamo in attesa, che siamo sicuri non sarà lunga.
Gomma – Zombie Cowboys
(V4V/Controcanti, 21 gennaio 2022)
Zombie Cowboys. Si chiama così, con un nome a metà fra un anime giapponese e un film di Robert Rodriguez, il terzo album dei Gomma, a circa tre anni di distanza da Sacrosanto e a cinque da quel Toska con cui avevano fatto un ingresso inaspettato e rumoroso nel panorama italiano alternativo. Se nel 2017 la band era finita sulla bocca di tutti suscitando reazioni parecchio contrapposte tra chi adorava quel sound sporco, cattivo e strabordante di angst giovanile e chi lo trovava inascoltabile, con Sacrosanto il quartetto aveva provato a correggere un po’ il tiro e presentare una faccia più matura e ragionata. Il disco era bello, ma forse anche per la sua minor carica di energia non ha davvero fatto spiccare il volo al progetto casertano. Su Zombie Cowboys si direbbe che i Gomma abbiano abbandonato velleità di mainstream per seguire sonorità manifestamente underground, tese, quasi lugubri a tratti, anche per i testi caratterizzati da immagini angoscianti come iene che ci mangiano e giganti di ferro che emergono dai rottami -pare un po’ di assistere al ciclo delle Pitture Nere di Goya in formato flac (o ogg, non so cosa usiate per ascoltare la musica). Non sorprende quindi sapere che la band ha scritto la maggior parte del disco durante i lockdown del 2020, quando l’ansia e la sensazione di impending doom erano prevalenti nelle nostre menti e corpi chiusi nelle scatole urbane. Difficile dire in che posizione si situi questo disco rispetto ai due che lo hanno preceduto: se il sound è sicuramente più pulito che sull’esordio (intendo proprio a livello di audio), la rabbia repressa di molti brani da Santa Pace a Guancia a guancia a Iena lo rende un ascolto più complicato, più ostico, da assorbire lentamente tramite ripetuti ascolti in un arco di tempo più o meno lungo, che poi è quello che si dovrebbe fare con tutti gli album veramente belli e meritevoli che tentano di sfuggire al mercato musicale usa e getta di oggigiorno. Forse è ancora presto per esprimere un giudizio conclusivo su Zombie Cowboys, ma i Gomma hanno sicuramente tentato di creare un’opera che possa restare nel tempo e regalare nuove angolazioni, nuove letture e comunicare emozioni anche dopo numerosi play. Prima di concludere terrei a sottolineare come la performance vocale di Ilaria sia di altissimo valore (alla faccia di chi odiava Toska proprio per quest’aspetto), tanto tecnico quanto a livello di interpretazione dei brani e delle loro emozioni, e a elogiare un brano come Sentenze, forse il pezzo più diverso dagli altri sulla tracklist, un po’ come Elefanti lo era in Toska.
Modern Error – Victim of a Modern Age
(21 gennaio 2022, Rude Records)
Tre anni dopo l’uscita del loro mini-album/maxi-EP Lost in the Noise, i britannici Modern Error possono finalmente celebrare l’uscita del loro primo full length vero e proprio, questo Victim of a Modern Age che, di durata considerevole (sfioriamo i cinquanta minuti), si presenta come una sorta di concept album diviso in due metà a specchio, dove la prima rappresenta una specie di volo di Icaro verso la luce del mondo digitale in cui siamo tutti quanti immersi, e la seconda l’inevitabile caduta nelle profondità del mare. Il concetto è quindi interessante, e a suo modo lo è anche il sound proposto dal duo formato dai fratelli Pinchin: un po’ un mix tra il post-hardcore monotono britannico (band quali Acres, Holding Absence, Parting Gift e simili) e pesanti suoni elettronici che pervadono ogni brano. Immaginatevi gli Enter Shikari, però senza le party catchy e i testi “colti”. È un sound verosimilmente moderno, ma è anche un sound che fatica ad andarmi giù, per cui potrei malignamente definirlo un errore moderno (sorry). Al netto di qualche singolo interessante -su tutti Only One e A Vital Sign– ciò che prevale in Victim of a Modern Age è la noia, e i lunghi intermezzi di synth fra una traccia e l’altra e a volte pure all’interno delle tracce fanno ben poco per bilanciare questa sensazione. Per cinquanta minuti pare veramente un po’ troppo.
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