Gli album del mese: Ariete, Avril Lavigne, Black Country New Road & more

Ariete – Specchio
(Bomba Dischi, 24 febbraio 2022)
Fino a oggi, quante sono state le canzoni italiane in radio cantate da donne che dichiaravano esplicitamente amore a un’altra donna? Così a occhio e croce me ne vengono in mente ben poche; da uomini che lo dichiaravano ad altri uomini men che meno. Una sorta di tabù probabilmente, anche in un mondo come quello musicale che spesso si definisce o si crede più progressista e aperto rispetto alla società sua contemporanea. Ci voleva una ragazza del 2002, portavoce di una generazione evidentemente più abituata a vivere sulla propria pelle queste tematiche nel quotidiano rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta, per sdoganare questo tabù, facendolo peraltro nella maniera più fluida possibile. Non so dirlo con certezza, ma credo che un’artista che esprime questi concetti in una maniera così semplice e naturale e raggiunge i numeri e la popolarità che ha raggiunto e raggiungerà Ariete faccia tantissimo per “normalizzare” l’amore in tutte le sue forme, specialmente presso il grande pubblico benpensante. Già così Ariete è un’artista importante, quasi fondamentale, della sua generazione. Se ci aggiungiamo che le canzoni sono pure davvero fighe, la combo è totale.
Specchio è l’album d’esordio di Ariete, al secolo Arianna Del Giaccio, salita alla ribalta negli ultimi due anni grazie a due EP pieni di piccole hit (Pillole, Mille guerre su tutte) e la hit estiva del 2021 L’ultima notte usata negli spot Sammontana. L’album, fuori per Bomba Dischi, contiene un po’ tutto quello che abbiamo potuto apprezzare sugli EP, ma anche una piccola evoluzione in senso pop mainstream che si percepisce su alcuni brani, peraltro senza snaturare il sound dell’artista. Quasi tutti i pezzi della tracklist sono potenziali singoli, e già per questo mi sento di poter dire che l’album sarà un gran successo. Spiccano in particolare i due brani Giornate noiose e Castelli di lenzuola, in cui Ariete abbandona in parte i suoi trademark vocals colloquiali, casual e un po’ strascicati per esibirsi in un cantato vero e proprio; sono le tracce più pop di cui si parlava poco sopra, e funzionano a meraviglia, anche perché danno varietà al disco. Castelli di lenzuola peraltro, col suo arrangiamento orchestrale, ha tutta l’aria di essere il pezzo con cui Ariete si era proposta per Sanremo non venendo accettata (Amadeus, se è vero hai preso una gran cantonata).
Su Cicatrici sentiamo un azzeccatissimo featuring con Madame, che dà la vera svolta al pezzo grazie alla propria inconfondibile voce e al modo di cantare unico, mentre su Fragili, il brano più itpop del disco, c’è un duetto con Franco126 che a dir la verità convince meno perché non aggiunge troppo a un pezzo già molto apprezzabile di suo. Al di là di questo, di Specchio mi piace un po’ tutto; non ultima la diversità di mood e di vibe presenti nelle varie canzoni: agli inizi inizi Ariete si era fatta conoscere con pezzi mega-malinconici e drammatici (Pillole, Amianto, Quel bar…), ma già sull’ultimo EP 18 anni c’erano pezzi come la title track che erano degli anthem da presa bene. Qui c’è un po’ di tutto: la tristezza spezzacuore in L, la malinconia in Club, l’introspezione in Specchio (interludio), ma anche piccole canzoni d’amore giocose come Avviso (con tanto di synth che fanno molto DJ Lhasa primi ‘00) e Giornate noiose che sono upbeat pure nel sound e fanno venire voglia di ballare. Ed è anche refreshing sentire una voce pulita e naturale come quella di Ariete in mezzo al mare di vocals ipereffettati con l’autotune che popolano le onde radio. Un disco bello da sentire in ogni momento della giornata e per tutti i mood, e pure importante per quello che dice di sé e della propria generazione.
Ariete sarà in tour quest’estate in tutta Italia: date e biglietti disponibili qui.
A Will Away – Stew
(Rude Records, 18 febbraio 2022)
Gli A Will Away arrivano al terzo album a parecchi anni di distanza dal precedente –Here Again infatti era uscito nel 2017 su Triple Crown Records- anche se va detto che nel frattempo ci hanno fatto ascoltare nel 2019 un EP di sei brani intitolato Soup. Di recente il quartetto del Connecticut ha firmato per Rude Records, etichetta di cui da sempre ammiriamo l’abilità nel mettere sotto contratto giovani artisti di talento e di potenziale. Il primo risultato della collaborazione è questo nuovo disco, Stew, undici tracce fra pop rock, alternative rock e (accenni di) pop punk che ci fanno pensare più volte ai tempi in cui gli With Confidence facevano ancora canzoni belle. Al netto di un suono che spesso pare un po’ impastato (poi magari sarà anche la qualità audio di Spotify che lascia a desiderare), le canzoni di Stew sono effettivamente dei gran brani; tutte o quasi potrebbero essere singoli anche quando gli A Will Away si prendono qualche piccola libertà in più con la struttura delle canzoni ad esempio accorciando un ritornello, o non facendone partire uno nel punto in cui ce lo aspetteremmo. Di Stew ci piace un po’ tutto; se forse manca il singolone spacca-classifiche, è un disco che mantiene altissimo il livello per tutti i suoi 36 minuti di durata e che non stanca anche dopo ascolti ripetuti
Black Country, New Road – Ants from Up There
(Ninja Tune, 4 febbraio 2022)
L’uscita del secondo album dei Black Country, New Road è stata funestata dalla notizia dell’abbandono della band da parte del cantante Isaac Wood, comunicata appena cinque giorni prima della pubblicazione del disco (anche se gli altri membri della band hanno rivelato che il vocalist aveva già espresso loro in privato questa decisione da qualche tempo), che ha anche fatto saltare i piani per il primissimo tour negli Stati Uniti. Il ruolo di cantante sarà probabilmente assunto dal bassista Tyler Hyde, ma nel frattempo il gruppo inglese ha già annunciato che non suonerà nessun brano tratto dai primi due dischi per rispetto di Wood -una decisione forte, dato che la popolarità della band deriva (e deriverà) in gran parte da questi due album. Venendo al disco in sé, siamo di fronte a un’opera intricata e non può essere altrimenti nel caso dei Black Country, New Road, band rock che include nella propria lineup un violino e un sassofono utilizzati regolarmente nei brani. Il risultato è un rock parecchio sperimentale, che alcuni avvicinano alla scena post-punk inglese più per affinità spazio-temporale che per vere somiglianze; a noi viene più in mente un paragone con un gruppo come i The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die: anch’essi un collettivo o band di dimensioni extralarge, come i BC,NR incorporano strumenti e sonorità varie nel proprio sound emo/alternative/indie rock e hanno sviluppato negli anni una tendenza a scrivere brani complessi e progressivi. A dire il vero, su Ants from Up There la band si è impegnata a scrivere in parte in maniera più accessibile, senz’altro per allargare un po’ la platea di potenziali ascoltatori, e allora ecco che abbiamo canzoni come Chaos Space Marine e Good Will Hunting che presentano strutture maggiormente convenzionali e sonorità più orecchiabili (non certo catchy), ma poi il (ex) settetto piazza dei mastodonti come The Place Where He Inserted the Blade (7:13 minuti), Snow Globes (9:13) e Basketball Shoes (12:37), tutte in fila l’una all’altra in chiusura di disco, che nel complesso durano circa la metà dell’album -motivo per cui un disco di appena dieci brani di cui una breve introduzione dura un’ora. Va detto peraltro che le tracce finali per quanto lunghissime non suonano pretenziose quanto le omologhe dell’ultimo album dei TWIABP: su Ants from Up There rappresentano un valore aggiunto e un’esperienza di ascolto immersiva e completa, rendendolo un disco non certo facile a cui approcciarsi, ma anche molto remunerativo se si ha la pazienza di scoprirlo nelle sue sfaccettature
Avril Lavigne – Love Sux
(DTA Records, 25 febbraio 2022)
Visto che negli ultimi mesi è scoppiata di nuovo la pop punk mania, alcuni cavalli di ritorno cominciano a riavvicinarsi al genere dopo anni (decenni, a volte) passati a fare musica di ben altro tipo. È il caso di Avril Lavigne, che dopo essere finita a fare cose come Hello Kitty si è ritrovata ad aver voglia di buttar fuori di nuovo canzoni veloci con chitarre, bassi e batterie. Il tutto -of course- sponsorizzato dall’accoppiata John Feldmann e Travis Barker, principali responsabili con lo scudiero Machine Gun Kelly di questa nuova ondata pop punk nel mainstream. Love Sux è un disco come probabilmente Avril non ne pubblicava da Let Go del 2002; i ritornelli sono tutti mega-catchy, i pezzi veloci, ballabili e “saltellabili”, i vocals iper effettati per far sembrare la voce dell’artista canadese ancora più giovanile, i na na na alla Blink fanno capolino qua e là. Non ci sono veramente pezzi deboli su Love Sux, e ognuno di loro potrebbe tranquillamente essere scelto come singolo; il problema è semmai che queste sonorità e soprattutto il modo con cui sono affrontate nel disco sanno di estremamente già sentito e ripetitivo; manca anche quel po’ po’ di innovativo che aveva portato Machine Gun Kelly su Tickets to My Downfall (e con lui tutti i suoi emuli) inserendo elementi trap e hip hop all’interno del genere. Anche i testi sono scritti in modo da risultare relatable per la fascia 14-20 anni, il che ci fa un po’ ridere visto che Avril viaggia verso i 40. È chiaro che Love Sux è un’operazione meramente commerciale, e in quanto tale sarà sicuramente in grado di performare bene in particolare sulle piattaforme di streaming; probabilmente darà anche un nuovo impulso alla carriera di Avril con passaggi in radio e tour insieme alle nuove star della scena; a livello musicale resta però un disco che vale al massimo la collocazione sugli scaffali di vendita degli autogrill.
Mom Jeans – Sweet Tooth
(Many Hats Endeavors, 25 febbraio 2022)
Capifila del fifth-wave emo insieme a gruppi quali Oso Oso e Prince Daddy & The Hyena, i Mom Jeans devono quasi tutta la propria fama all’album d’esordio Best Buds (2016), diventato quasi istantaneamente un disco di culto nella loro nicchia di riferimento. Il successivo Puppy Love (2018) era stato decisamente meno apprezzato, e allora per il terzo album Sweet Tooth la band di Berkeley ha cambiato alcune cose. Innanzitutto l’etichetta, passando da Counter Intuitive a Many Hats Endeavors/Sequel, e soprattutto il proprio sound, allontanandosi un po’ dalle sonorità emo dei primi dischi per abbracciare un maggior numero di influenze tra cui il punk rock anni 2000 e soprattutto, ahinoi, lo ska. Ebbene sì, Sweet Tooth è un disco in cui le trombe diventano co-protagoniste, comparendo in quasi tutti i brani della tracklist e avvicinando pericolosamente l’album a un lavoro ska punk. Ricordando a tutti che chi suona lo ska dovrebbe essere perseguito penalmente, addentriamoci in Sweet Tooth, dove troviamo una certa varietà di suoni: Something Sweet e Ten Minutes tengono alta la bandiera dell’emo ricordando i brani di band come Moose Blood e Tiny Moving Parts (chitarre twinkly comprese), laddove White Trash Millionaire e Circus Clown fanno sentire l’influenza di un gruppo fondamentale come i Say Anything -del resto, il chitarrista Bart Thompson ha un side project solista (Graduating Life) che è sostanzialmente la trasposizione nel 2022 del gruppo di Max Bemis. Teeth e Graduating Life sono le due ballad d’ordinanza, peraltro molto apprezzabili, ma troviamo anche pezzi come Luv L8r che vira su un pop punk alla Man Overboard e un ritornello quasi power pop nella già citata Circus Clown. Se Puppy Love non era stato apprezzato in quanto tentativo sbiadito di riproporre le sonorità del primo disco, su Sweet Tooth i Mom Jeans hanno voluto aggiungere varietà e colore al proprio sound, riuscendo a creare un lavoro che forse non ha la stessa spinta dirompente e la stessa capacità di entrare nei feels che aveva Best Buds, ma che è sicuramente un grande passo avanti dal disco precedente e soprattutto un album che potrebbe farsi apprezzare anche da un pubblico leggermente più vasto di quello della micronicchia emo.
Pi Greco – Il rasoio di Occam
(Core Factory, 17 febbraio 2022)
Il rasoio di Occam è il filosofico titolo dell’album con cui i Pi Greco fanno il proprio debutto sulla lunga distanza. Il principio a cui il nome del disco fa riferimento invita a “non fare con più mezzi ciò che si può fare con meno”; un invito quindi alla semplificazione, alla strada diretta rifuggendo l’artificiosità e la complicazione. Musicalmente parlando, lo si potrebbe intendere come un invito ad andare dritti all’osso nella scrittura dei brani, spogliarli di tutti gli orpelli produttivi per lasciare che a parlare siano gli strumenti e le parole. In realtà Il rasoio di Occam (l’album, intendiamo) è un disco che si prende parecchie libertà di sperimentare, di vagare tra i campi della metafisica musicale, di contaminare stili e generi diversi. Le sue sette tracce (più un’intro e un intermezzo) spaziano dall’elettronica con cantato rap/spoken word al rock e post-hardcore dalle chitarre distorte e pesanti, e spesso tutto questo sta all’interno dello stesso brano. Lo si vede massimamente in Ci sono cose che, un pezzo che parte con effetti al sintetizzatore quasi spettrali che accompagnano vocals molto descrittivi (una voce che fa sostanzialmente un elenco) ma da metà brano si apre in un pezzo alternative rock distorto con vocals quasi urlati. Altrove sembra di essere stati catapultati nella tracklist di un disco degli Enter Shikari circa 2007 o degli Hacktivist -pensiamo in particolare a Ti prego (completa di frase a effetto “pi greco fa rima con ti prego / ma io non prego nessuno”) e ad Ante l’evacuazione, un pezzo che vi dovete immaginare come Undone (The Sweater Song) degli Weezer rifatta da una delle due band di cui sopra. In Da lontano ci avviciniamo addirittura a sonorità emo rap, specialmente nel giro della chitarra, mentre la closing track L’ultimo treno è un pezzone progressivo dal sapore molto elettronico. I Pi Greco mischiano parecchi elementi nella propria musica e non sempre è facile ritrovarsi nei vari pezzi, perché il disco è coerente a livello di produzione ma salta molto qua e là tra i vari generi; è evidente che la band abbia tanta voglia di sperimentare e di rifuggire la banalità e la normalità mainstream come la peste nera. Se questo da un lato può rappresentare un freno per il disco, specialmente nella fruizione presso il pubblico più ampio, dall’altra in un mondo dove siamo bombardati su ogni fronte da musica studiata a tavolino per inserirsi nei meccanismi delle playlist editoriali di Spotify e dei trend su TikTok, essere sperimentali è quasi un imperativo per chi si sente un artista nell’anima.
Sugar for Your Lips – Spleen
(Overdub Recordings, 4 marzo 2022)
Anticipato dal singolo Idea, Spleen è l’album d’esordio dei cosentini Sugar for Your Lips; un disco che è un “grido di rabbia dovuto al proprio disagio e al forte senso di alienazione rispetto al mondo di oggi”, espresso tramite un concept che unisce i vari pezzi della tracklist: “un viaggio in cui in ogni tappa ci si confronta con sé stessi per comprendere che accettarsi è la risposta ad una perenne sensazione di fastidio, lasciando spazio alla voglia di rivalsa”. Non sorprende che la musica di Spleen rispecchi in pieno questo tormento e quest’angoscia esistenziale, dipanandosi in schitarrate potenti e riff carichi di pathos come si usava una volta -cioè una quindicina di anni fa. In effetti l’alternative rock della band calabrese ha più di qualche contaminazione con l’emo e il post-hardcore, e se i vocals ci fanno spesso pensare a somiglianze con gli Sugarfree (ricordate? Quelli di Cleptomania), gli altri strumenti ci catapultano dall’altro lato dell’Oceano Atlantico a quando il Warped Tour era l’evento per eccellenza dell’estate. Sono in particolare i primi tre brani “completi” (0-, Idea e Il gramo) a pendere più sul versante post-hardcore, con chitarre che si troverebbero a proprio agio nelle tracklist degli album di gruppi appartenenti alla scena Scary Kids Scaring Kids, From Autumn to Ashes e similari. Più avanti il disco smorza leggermente i toni abbracciando influenze più emo tra Matchbook Romance e Senses Fail, come si sente su A metà, Salvami e Io fantasma, mentre Ombra sul muro è il pezzo più arioso e coi riff maggiormente riflessivi, più vicino a certo indie rock / alternative americano da primi ’00, e la closing track Tu sei lì che ci fa a tratti pensare ai nostrani Cara Calma e a tutta quella scena emo/alternative rock italiana che si è sviluppata dai Fine Before You Came in avanti. Un disco che ovviamente su queste pagine piace parecchio, con sonorità che in Italia non vengono perseguite abbastanza (per i nostri gusti quantomeno) ma che invece crediamo troverebbero una piccola ma appassionata cerchia di gente disposta a radunarsi sotto la bandiera comune di una “scena”.
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