Gli album del mese: Yungblud, The Summer Set, Tiny Moving Parts & more

Yungblud – Yungblud
(Geffen Records, 2 settembre 2022)
Uno degli idoli per i ragazzini alternativi d’oggigiorno, Yungblud arriva al terzo album, curiosamente self-titled, dopo un percorso che sin qui l’ha visto crescere in modo esponenziale specialmente nel giro dell’ultimo paio d’anni. Quello che si nota subito su Yungblud (il disco) è la grande varietà di stili, generi e approcci che l’artista inglese adotta; una varietà perfetta per la generazione a cui l’album si rivolge, che ha ormai superato la necessità delle distinzioni tra generi musicali. Vediamo così brani come The Funeral e Tissues che sono praticamente rivisitazioni in chiave moderna dei Cure, un pezzo come Cruel Kids che si avvicina a sonorità emo rap, o I Cry 2 che è la canzone che assomiglia ai The 1975 che tutti gli artisti inglesi devono per forza inserire nei propri album. In mezzo c’è spazio per un featuring con l’ormai onnipresente Willow e una ballad lenta e dolce come Sweet Heroine. È un disco fatto bene, estremamente commerciale e studiato apposta per massimizzare il proprio successo presso il pubblico di riferimento, ma non per questo privo di appeal o di godibilità per tutti.
The Summer Set – Blossom
(self-released, 9 settembre 2022)
È vero che negli ultimi anni le reunion di storiche band anni 2000/primi 2010 non sono mancate, ma qualche mese fa abbiamo riaccolto fra noi i The Summer Set e questa è stata una notizia che ci ha fatto scaldare il cuore più di altre -e forse anche scendere una lacrimuccia felice, tipo quella dell’emoji migliore che ci sia in circolazione. Brian si è lasciato alle spalle (si spera definitivamente) il proprio ego smisurato e incontrollabile, e ha accettato di tornare insieme ai suoi vecchi compagni di band, anche perché la sua carriera solista nel frattempo non era esattamente decollata. I The Summer Set ci propongono qui Blossom, ovvero la prima parte di un doppio album (!!). Quelle che troviamo su questo “lato A” sono sette canzoni più un’intro, e la prima cosa che notiamo è che il sound della band non è cambiato più di tanto -il che è sicuramente qualcosa di confortante. Si capisce subito dalla prima canzone, Street Lightning, un pezzo che più The Summer Set non si può -anche se in fin dei conti non è poi nemmeno un capolavoro. Lo stesso si può dire di Teenagers che ha anche il feat. di Chrissy Costanza; dovrebbe essere uno dei pezzi forti del disco e invece è estremamente scontata, specialmente nelle linee vocali. FTS invece viaggia su un pop parecchio mainstream ma tutto sommato funziona, anche se la parte di Travie McCoy (sì, quello dei Gym Class Heroes) è piuttosto terribile sia per la banalità di quello che dice sia perché c’entra poco con lo stile della band. Molto meglio Hard Candy, che è sostanzialmente una canzone dei The Maine; ma a parte questa somiglianza, apprezziamo molto l’energia del brano, un sound che ci sarebbe piaciuto forse sentire maggiormente e che invece ritroviamo solo in Famous. Back Together infine è una ballad melensa, ma gliela perdoniamo perché è la traccia con cui i The Summer Set parlano della propria reunion, per cui ha un significato particolare. È il miglior disco dei TSS? Sicuramente (e di gran lunga) no, però è davvero molto bello riaverli fra noi.
Tiny Moving Parts – Tiny Moving Parts
(self-released, 26 agosto 2022)
Lo ammetto: a più riprese negli scorsi mesi ho parlato maluccio dei nuovi singoli dei Tiny Moving Parts, criticandone principalmente la ripetitività e la mancanza di originalità rispetto a quello che la band ci aveva già fatto sentire in passato. Ascoltando per intero il nuovo disco (un self-titled, cosa che nella mia personalissima visione è spesso segno di poca originalità già in partenza), non posso che confermare tutto quanto ho detto per i singoli: il cantato di Dylan è sempre uguale, con linee vocali già sentire e risentite nei precedenti quattro dischi; le sonorità si ripetono, con il tapping esasperato in quasi tutti i pezzi -che è un marchio di fabbrica dei Tiny Moving Parts ovviamente, ma che alla lunga diventa scontato; i riferimenti nei testi sono un po’ sempre i soliti: il Midwest, gli icicles, la tundra, le parti del corpo che non funzionano; certo, capisco che vivere nel Minnesota sia abbastanza traumatico e porti a parlare sempre di freddo, buio, ghiaccio, però insomma… del resto, anche intere frasi o concetti sembrano la ripresa di testi precedenti: “Why can’t life just work out the way I want it to?” è un rephrasing abbastanza letterale di “why can’t things go the way I want?” ad esempio. Eppure… eppure ascoltando i venticinque minuti di durata di questo disco non riesco a non prendermi bene per ogni singolo brano, che inevitabilmente finisce per piacermi, coinvolgermi e intenerirmi, cosa che Dylan riesce a fare benissimo con la sua voce e con i suoi testi un po’ goffi. Tiny Moving Parts non è un disco che attirerà nuovi fan verso la band; è un disco in cui la band ha voluto dare ai propri fan già presenti esattamente quello che si aspettavano. Una mossa poco coraggiosa, ma alla fine ai Tiny è impossibile non volergli bene.
The Dangerous Summer – Coming Home
(Rude Records, 26 agosto 2022)
Sesto album per i The Dangerous Summer, con AJ Perdomo che da quando ha deciso di riunire la band deve aver trovato un periodo di straordinaria ispirazione creativa visto che il gruppo ha pubblicato tre album e un EP nel giro di quattro anni, e lui ha trovato anche il tempo di lanciare un progetto solista chiamato Broken Glowsticks e un duo con Derek Sanders dei Mayday Parade di nome The Ditches. Coming Home è l’album che segna il passaggio da Hopeless Records a Rude Records, ma è anche un disco in cui i The Dangerous Summer apportano un cambio di velocità alle proprie canzoni. Il sound è sempre quello riconoscibilissimo della band, sia perché i vocals di AJ si identificano all’istante, sia per il lavoro sulle chitarre che è assolutamente sulla scia degli ultimi due dischi (e ogni tanto anche su quella di The Permanent Rain che rimane di gran lunga la canzone più conosciuta della band); c’è però la volontà precisa di smorzare i toni, rallentare le canzoni, adottare un approccio più quieto e riflessivo rispetto al recente passato. Se Mother Nature era trascinato dalla forza rock di Way Down, qui le canzoni cariche si contano sulle dita di una mano; togliere il piede dall’acceleratore non è di per sé un male, e anzi è spesso necessario per dare respiro e dinamismo a un disco, ma la sensazione è che su Coming Home i The Dangerous Summer rifiatino un po’ troppo. I pezzi lenti seguono altri pezzi lenti, e solo ogni tanto arriva la frustata di qualche canzone più spinta; i brani sono per lo più belli e intensi come i The Dangerous Summer sanno fare da sempre, e spesso anche teneri, ma manca un po’ di energia e di velocità perché questo disco possa esprimere al meglio quanto la band potrebbe fare.
Anarbor – Love & Drugs
(self-released, 2 settembre 2022)
Dopo secoli dall’album self-titled -sei anni, che per la musica sono un’eternità- gli Anarbor trovano finalmente il modo di cacciar fuori un nuovo disco. L’album era in realtà stato anticipato da una lunga serie di singoli, molti dei quali hanno anche trovato posto nella tracklist, che ci avevano fatto storcere parecchio il naso. L’ascolto dell’intero album conferma questa sensazione. Il sound che la band ha scelto non è più quello rock e simil pop punk di dischi come Burnout e The Words You Don’t Swallow, quando la band era sotto contratto con Hopeless Records; parte invece dall’approccio pop rock adottato sul più recente self-titled, ma alleggerendo ulteriormente le sonorità, minimizzando la strumentazione e la creatività, in favore di un cantato carino ma parecchio simile fra una traccia e l’altra. L’energia è sparita, la carica non c’è; dovrebbe esserci una sorta di mood chill e brani di facile ascolto, ma francamente sembra mancare quella scintilla che dovrebbe accendere ogni buon brano che si rispetti, che sia lento e tranquillo o meno. Una versione degli Anarbor troppo annacquata per essere accettabile.
Youth League – Somehow Those Were Days
(Wiretap Records, 2 settembre 2022)
Album d’esordio, anche se in formato ridotto – sono solo otto tracce – per gli Youth League, trio del North Carolina con alle spalle due EP (dagli originali nomi di First, 2015 e Second, 2017). Nella tracklist di Somehow Those Were Days c’è una studiata alternanza, 50/50, tra brani strumentali e cantati: se può sembrare una scelta ordinaria su tracce come Lakewood e Blush – che possono fungere rispettivamente da intro e interludio –, Part & Parcel e Hospital Coffee sono invece a sé stanti, si godono appieno nonostante la mancanza di cantato. Pure quando questo interviene – anche sotto forma di brevi “coretti” singalong – le canzoni restano comunque molto suonate: Nineteen Ninety Nine, Rondo, Barstool e Bedroom (e in queste ultime due i vocals si avvicinano molto a quelli dei Transit). In generale è un album che cerca poco l’appoggio delle voci e a ragione: non perché queste non siano buone (anzi, quando ci sono funzionano e bene), ma perché i brani stanno in piedi da soli, non necessitano di ulteriori stampelle. Ne esce fuori un piccolo gioiello che si muove con padronanza tra emo e post-rock. [Simone De Lorenzi]
Manila – Partenze
(Zonartista Records, 2 settembre 2022)
EP d’esordio per i Manila, band che viene da Carrara (chissà se a Manila c’è una band che si chiama Carrara). Il disco si chiama Partenze, e nel titolo fa riferimento alle partenze “di alcune persone rappresentate astrattamente all’interno dei brani, che parlano in genere di persone che si sono allontanate, con le quali non è stato possibile avere un legame concreto e sincero”. Una di queste immaginiamo sia la Francesca citata nel nome del brano d’apertura, un pezzo synthpop con elementi che pescano quasi dall’EDM, tipologia di sound che è in effetti quella prevalente all’interno dell’EP e che ritroviamo anche in Tra sguardi e bicchieri, oltre che declinata con sfumature maggiormente pop rock e riferimenti anni ’80 in Segnali o in un pezzo downtempo quasi simile ai brani lenti dei Chvrches in Cuore in gola. Colpisce la voce di Edoardo, più profonda e per questo diversa da quella della media degli artisti indie pop che spopolano in radio e nelle playlist di Spotify, e piace molto anche l’approccio strumentale che unisce l’indie pop italiano al synthpop europeo dando una dimensione internazionale al progetto. Mancano ancora, d’altro canto, melodie veramente accattivanti e memorabili che possano lasciare il segno e farsi ricordare, e sarà una cosa su cui magari i Manila vorranno lavorare ulteriormente nei prossimi tempi per contribuire a staccarsi dalla massa degli artisti emergenti italiani.
Fratelli Cecchi – Guardando più in là
(self-released, 27 giugno 2022)
I Fratelli Cecchi sono Gabriele Marco e Samuele Luca (due evangelisti, un arcangelo e un profeta), vengono da Prato e hanno recentemente pubblicato il loro primo disco, Guardando più in là. Loro ne parlano come di un lavoro che invita a “guardare al di là delle apparenze, oltre quelle logiche di mercato che riducono le emozioni a cose ‘usa e getta’. Un invito a saper guardare più in là anche delle macerie personali, delle piccole e grandi sconfitte”. È un album che vuole porre una grossa fetta dell’attenzione sull’aspetto lirico-testuale delle canzoni; non che la musica non sia importante ovviamente, ma i testi sono in modo evidente ciò a cui i due fratelli hanno lavorato particolarmente in fase di scrittura. Si notano alcuni filoni tematici nel disco, che sono da una parte il racconto dell’amore e delle emozioni che sprigionano fasi differenti di un rapporto amoroso: il primo approccio nell’omonima canzone, l’accendersi de “La scintilla dell’amore” nella penultima traccia, la storia che si dipana e viene vissuta in Quell’occhiata da sotto la frangia, il suo sgretolarsi nell’opener L’impero è crollato (una curiosa scelta di tracklist in ordine cronologico inverso, se vogliamo). Dall’altra parte ci sono tre brani a tema cinematografico, ognuno raccontato dal punto di vista della figura corrispondente: Il regista racconta di un regista sperimentale (e anche un po’ fai-da-te) che gira un film di quattro ore che vedranno tre persone in un cinema d’essai, ed è anche il pezzo più frizzantino, vivace e in fondo migliore del disco, con il suo piglio quasi da canzone da cabaret; Il direttore della fotografia e L’operatore di ripresa che sono invece pezzi più lenti al pianoforte. In tutto questo c’è spazio anche per argomenti importanti e sociali: la violenza sulle donne in Nuvole viola, e il tema della disabilità in Guardando più in là, dedicata a un’amica “scomparsa nel 2019 dopo aver lottato col sorriso contro le barriere della sua disabilità”. Il sound prevalente nel disco è quello di un pop che assume spesso tinte drammatiche ed epicheggianti, un po’ come se fosse la colonna sonora di un film, ma che non sarebbe nemmeno stato fuori posto in un Sanremo di una decina di anni fa. Ci sono ovviamente anche pezzi più pop rock e upbeat, come La scintilla dell’amore, Tutto il vento del mondo o Il primo approccio non si scorda mai, con quest’ultima che sembra un brano ambientato ne Il fantastico mondo di Amélie; in questi casi però i Fratelli Cecchi arrivano pericolosamente vicini a melodie e sonorità che si confarebbero anche a una canzone dell’oratorio, e si fermano forse appena prima di varcare questa soglia. Guardando più in là non è un album veramente interessante dal punto di vista musicale: il sound è nella scia della tradizione pop italiana senza particolari innovazioni o caratteristiche che lo rendano personale; meglio ovviamente sul lato testuale, dove i due fratelli mettono in mostra buone capacità di scrittura e un sapiente uso delle parole, che magari non li farà finire in un’antologia scolastica come alcuni più noti autori di testi italiani, ma che dona vivacità e un significato a volte profondo ai brani.
N’to Stina – Musica per coppiette
(self-released, 2 settembre 2022)
Il punk in acustico è sempre andato piuttosto forte, e lo dimostrano non solo le quasi infinite versioni acustiche di pezzi famosi che ogni band punk rock che si rispetti ha incluso come bonus track di dischi vari o le compilation Punk Goes Acoustic che andavano di moda negli anni 2000 e 2010, ma anche progetti più recenti come l’italianissima Italian Punks Go Acoustic con Andrea Rock e altri nomi noti della scena locale. Tiene viva la tradizione anche il nostro N’to Stina (dove “Stina” è l’anagramma di Santi, il cognome dell’artista), che ha da poco pubblicato il suo nuovo album Musica per coppiette, ovvero -come potrete del resto immaginare- “undici tracce acoustic punk rock che raccontano con ironia la vita di coppia, l’amicizia e l’avventura del viaggio”. A N’to Stina, diciamolo subito, interessa più divertire e fare il cazzone che scrivere vere e proprie canzoni con tutti i crismi. I testi sono al 95% irriverenti, demenziali, autoironici e stupidini, con qualche rara eccezione in canzoni quali Jesse & Tulip che è semiseria o Zurigo che è quasi semiseria; la voce è un po’ quella che è, e anche la metrica è in molte occasioni piuttosto approssimativa, ma tutto questo ha poca importanza, perché pare chiaro che N’to Stina sia il primo a non prendersi troppo sul serio. Le sue canzoni sono strimpellate più che suonate, e sembrano un po’ un misto tra i Green Day in acustico, Dado che storpiava le canzoni a Zelig, e uno con una chitarra in mano che cerca di improvvisare rime senza senso. Diciamo tutto questo senza alcuna connotazione negativa né positiva: è quello che N’to Stina fa e vuole fare, e va benissimo così. Qualche sorriso l’artista ce lo strappa, a volte fa un po’ rabbrividire (userei il termine “cringe” se non fosse cringe dire che una cosa è cringe), e spesso fa le due cose contemporaneamente come in “Voglio una ragazza cinese”, che sembra un tentativo di farsi cancellare dalla massa degli utenti woke dell’Internet (ma in Italia per fortuna ce ne sono pochi). Sul finale, spazio anche per Al menos tú me ama un poco, un pezzo in uno spagnolo tremendo a partire già dal titolo, a chiudere proprio come si deve un disco come questo. Più artista o cabarettista? A questo punto vorremmo sapere come risponderebbe lui stesso!
Richard Green – A Journey
(self-released, 1 settembre 2022)
EP non convenzionale quello che ci propone Riccardo Dosi, in arte Richard Green -nome in inglese che non è soltanto un vezzo o un forestierismo, dato che Riccardo si è stabilito a Londra nel 2012 dove ha studiato musica e ha ottenuto la laurea come musicista. Il suo A Journey è un lavoro di cinque brani di musica classica, suonati al pianoforte e con gli archi, e con un piglio sicuramente moderno che magari non renderà le canzoni “pop” o di immediata fruizione, ma sicuramente ne fa un ascolto leggero e fresco, anche per chi solitamente non bazzica questi lidi. Nonostante gli strumenti siano fissi nei vari pezzi, Richard/Riccardo ha saputo mantenere una certa varietà nel disco, passando da atmosfere più allegre e briose come nei pezzi che aprono l’EP, a quelle più notturne e oscure -ma non tetre o tristi- delle successive tracce. Come dice lui stesso, “spesso mi sono immaginato come un pittore che stava pitturando su una tela completamente bianca dove anziché pennelli, avevo strumenti musicali, e i miei colori erano le note; non è un caso che il rapporto colori-suoni mi abbia sempre affascinato”.
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