Gli album del mese: Mitski, Frank Turner, As It Is & more

Mitski Laurel Hell copertina

Mitski – Laurel Hell

(Dead Oceans, 4 febbraio 2022)

Mitski non pubblicava un album dal 2018, e il disco uscito quell’anno, Be the Cowboy, aveva riscosso un successo travolgente catapultando la cantautrice di Dead Oceans nel gotha degli artisti con più hype del panorama indie. Normale quindi che le aspettative fossero altissime per il followup, arrivato nella forma di undici canzoni racchiuse sotto il titolo Laurel Hell (un riferimento, a quanto pare, a un’espressione slang usata sugli Appalachi per riferirsi alla situazione in cui si rimane intrappolati fra gli arbusti di alloro). Normale anche che si possa restare un po’ delusi dopo l’ascolto del disco, che contiene sì molti degli elementi che ci hanno fatto apprezzare Mitski nel corso degli anni -in primis il suo stile di scrittura personale e la sua abilità di convogliare suoni e melodie pop su una base musicale elaborata- ma che a tratti sembra osare poco, accomodarsi su terreni facili e non accidentati in una sorta di comfort zone dove l’artista evita di prendersi rischi e sperimentare, in favore di brani abbordabili ma che non lasciano troppo il segno. Anche i testi a volte ne risentono, risultando sempre personali e diretti ma a tratti piuttosto banali, sicuramente poco profondi. Abbiamo così dei gran pezzi -del resto scelti come singoli- quali Stay Soft, o Love Me More con quel suo piglio da pop hit anni ’80, così come Heat Lightning che è una sintesi di Venus in Furs dei Velvet Underground per il pattern musicale e di un disco di Julien Baker per i vocals e le melodie. Ma d’altro canto abbiamo anche molti pezzi dove si sbadiglia un po’ -su tutti, Everyone, There’s Nothing Left for You e I Guess. Insomma, finora abbiamo sottolineato molto gli aspetti secondo noi negativi del disco, principalmente perché era un disco così atteso di un’artista importante come Mitski, ma non vogliamo nemmeno dire che Laurel Hell sia un brutto album. È un lavoro che nel complesso prende una sufficienza piena e i cui singoli faranno bene sia a livello commerciale sia nei live; semplicemente da Mitski ci si attendeva probabilmente di più.


As It Is – I Went to Hell and Back

(Fearless Records, 4 febbraio 2022)

Archiviato il tentativo di reincarnare i My Chemical Romance -principalmente perché quelli veri sono tornati- e perso dolorosamente il chitarrista e seconda voce Ben Langford-Biss, gli As It Is provano di nuovo a reinventarsi con il loro quarto disco I Went to Hell and Back. Se i primi lavori della band erano su sonorità maggiormente pop punk e l’ultimo su sound maggiormente emo, qui la band fa un po’ un pastone di tutto quanto, con pezzi più pop punk, pezzi più emo, pezzi emo trap, pezzi pop rock, per un risultato che suona particolarmente disomogeneo e “all over the place”, per dirla come gli inglesi. Si potrebbe malignamente dire che le tracce come I Lie to Me o I Hate Me Too cercano di fare il verso alle uscite americane tipo MGK e compagnia cantante per inserirsi in questo filone che al momento va di moda, ma senza riuscirci particolarmente. Altrove si nota un approccio aggressivo come non avevamo mai sentito dalla band di Patty Walters, con quest’ultimo che si esibisce più volte in scream inediti come in IDGAF o I Want to See God. I Went to Hell and Back contiene un paio di singoli molto convincenti su cui far partire il singalong -su tutti, I Miss 2003 e IDGAF- ma è davvero troppo poco per un disco di quattordici tracce. La sensazione che si ha ascoltando il disco è che nemmeno la band ci creda più di tanto.


Knuckle Puck – Disposable Life

(Wax Bodega, 4 febbraio 2022)

Nel 2015 i Knuckle Puck erano considerati sostanzialmente la next big thing del pop punk, grazie alla loro abilità nel combinare il genere con le sfumature emo di moda in quel momento (vedasi anche Moose Blood e Tiny Moving Parts) e a un disco d’esordio –Copacetic– con testi pieni di paroloni complessi (quantomeno per gli americani) e canzoni d’impatto come Untitled. Le cose non sono poi andate esattamente come da programma, perché i successivi album Shapeshifter (2017) e 20/20 (2020) hanno presentato una band poco capace di evolversi e maturare, intenta principalmente a riproporre quanto sentito sul disco d’esordio ma senza più la brillantezza delle composizioni giovanili. Di recente il gruppo ha abbandonato Rise Records, l’etichetta che li aveva accompagnati sin qui, per accasarsi nella neonata ma molto cool Wax Bodega, di cui su queste pagine avete già sentito parlare parecchio grazie ad artisti come Hot Mulligan, Pronoun e Gates.

Il primo prodotto è un EP di 4 brani + 1 cover di Here’s Your Letter dei Blink-182; un lavoro più stringato e sintetico quindi, forse anche una sorta di reintroduzione alla band. Andando ad ascoltare Disposable Life però non sembra che Joe Taylor e compagni abbiano voluto stravolgere le cose o cambiare granché il proprio sound: sembra che per i Knuckle Puck il tempo si sia arrestato definitivamente da qualche parte attorno al 2015. Le chitarre spingono ma tenendo un approccio molto saltellabile e orecchiabile, i vocals sono tirati come pop punk comanda, le melodie piuttosto accattivanti senza comunque grandi “acuti”. Quattro brani gradevoli, che tutto sommato non sembrano destinati a fare in alcun modo la differenza; la cover dei Blink si stacca semmai da questa tendenza, sembrando una reinterpretazione di Here’s Your Letter in chiave Man Overboard; pare anche prodotta in modo diverso dal resto dell’EP, forse più artigianalmente; in ogni caso si sente un punch che il resto del disco ha leggermente meno. Va comunque detto che in un momento in cui questo tipo di sonorità non sono certo di moda, pubblicare un disco interamente su questo stile significa che la band ha voluto fare esattamente il tipo di musica che le piace e che sente propria invece che seguire il mercato o i dettami di qualche etichetta o manager, e questo le fa onore.


About Blank – About Blank

(Beautiful Losers, 11 febbraio 2022)

Anche se è appena finito Sanremo con la sua invasione di motivetti pseudo indie pop e di cantanti di musica leggera, qualcuno in Italia prova ad andare controcorrente (e già questo, in un Paese tanto conformista, basterebbe a rendergliene merito) ricercando, scovando e poi proponendo artisti che intraprendono strade complicate, sfavorite dall’attenzione mediatica pressoché inesistente per i generi non benedetti dal mainstream corrente. È quello che ha fatto Beautiful Losers, piccola ma intrepida etichetta veneta, con Gabriele Dalena in arte About Blank, qui all’opera con il suo disco d’esordio omonimo. Ora, se About Blank fosse nato da qualche parte tra New York e San Francisco o dal lato giusto della Manica, avrebbe probabilmente solo dovuto scegliere dove accasarsi tra 4AD, Secretly Canadian e compagnia; sfortunatamente per lui è nato in un luogo che non favorisce (al momento, quantomeno!) la crescita di talenti dell’indie rock e folk che invece tanto bene funzionano nel mondo anglosassone.

Gabriele si cimenta comunque in questa lotta impari e ci propone un disco di nove tracce dove la voce e la chitarra giocano i ruoli chiave, declinate in una serie ammirevole di variazioni sul tema: da brani più tipicamente folk e folk rock come Graceless, Reckless e Ask the Flowers si passa a pezzi indie rock con punte sperimentali e psichedeliche quali Everyone Falls Asleep e Translucent, concedendosi anche loop e suggestioni elettroniche in una traccia come Million Miles Away che è la più diversa della tracklist, complice anche un salto sonoro nel ritornello tanto brusco quanto azzeccato in cui l’elettronica lascia spazio a un organo; aprono e chiudono due brani quasi esclusivamente chitarra e voce quali Homesickness e In This Dirt, l’ultimo dei quali regala anche impressioni Midwest emo / Tiny Moving Parts.

Oltre alla qualità dei pezzi, si fa davvero apprezzare la cura dei dettagli, il lavoro sugli arrangiamenti, le piccole cose che si notano appena (dall’organo che fa capolino in Ask the Flowers agli accenni Americana che compaiono in Chosen) ma che rendono About Blank un disco ricchissimo a dispetto della semplicità degli strumenti principali con cui è stato suonato, ovvero la chitarra e la voce. Come sempre, in presenza di artisti italiani che cantano in inglese, non riesco a fare a meno di prestare attenzione all’accento con cui viene pronunciata la lingua della Perfida Albione: nel caso di About Blank, la prova è ampiamente superata, e lo scrivo con un certo sollievo perché un disco così ben fatto e suonato sarebbe davvero sprecato se cantato in un inglese maccheronico. Un disco che fa di Beautiful Losers una piccola Dead Oceans italiana.


Esteban – Nuvola

(Visory Indie, 11 febbraio 2022)

Si presenta come Esteban, che è parte del suo vero nome effettivo: all’anagrafe è Esteban Ganesh Dell’Orto, nome che riflette le sue triplici origini cilene, indiane per parte di mamma e italiane (nato a Palermo, vive a Milano da quando era piccolo). Nuvola è il suo EP d’esordio che racchiude i cinque singoli pubblicati nel corso del 2021 più l’inedito Aloe vera; un modo insomma per mettere insieme materiale già edito in una forma riconoscibile in modo più tradizionale dal mercato discografico -tant’è vero che ne stiamo parlando anche su queste pagine. Nella vita precedente (intendiamo pre-covid) faceva il rapper, ma con il suo nuovo progetto semi-omonimo ha intrapreso una strada maggiormente indie pop e lo fi, guidata in primis da una chitarra e ovviamente dalla voce: un disco dalle influenze cantautoriali insomma, e non è un caso quindi che Esteban citi artisti come Battiato, De André, De Gregori e Guccini come riferimenti. Nel suo modo di fare musica in realtà noi ci sentiamo anche molto Tricarico: parecchio a livello di sound, abbastanza a livello di testi, nonostante quelli di Esteban non abbiano la brillantezza e la genialità fulminea di quelli del cantautore suo concittadino. Nuvola è un EP che scorre veloce e finisce ancor prima che ci se ne accorga, segnale che i brani intrattengono e non annoiano, forse anche per l’intelligente disposizione della tracklist, dove la canzone più allegra e upbeat è messa in apertura (Nano Cilao -il cui testo è però per contrappasso insospettabilmente triste) per poi rendere man mano più oscure le atmosfere nelle successive Banierine tibetane e Christiane, e da lì risollevare i toni musicali con Sapone di Marsiglia, Aloe vera e Luz de vela.


Frank Turner – FTHC

(Polydor/Xtra Mile, 11 febbraio 2022)

Frank Turner è giunto all’album numero nove; una cifra che comincia a essere considerevole per una discografia che finora ha regalato principalmente perle. Certo, le ultime due prestazioni dello skinny half-arsed English country singer erano state meno brillanti che in passato: Be More Kind (2018) era nel complesso un buon disco, con qualche passo falso di troppo ma anche alcuni pezzoni (1933 è facilmente tra i brani top di Frank), mentre No Man’s Land (2019) aveva pochi acuti ma un concept davvero interessante che esaltava le doti da storyteller dell’artista. Su FTHC (acronimo che sta per “Frank Turner HardCore”, uno dei classici modi con cui è sempre stato indicato l’ex frontman dei Million Dead) troviamo Frank alle prese con il matrimonio, il compimento dei 40 anni e la pandemia, che fra le altre cose ha portato l’artista e la moglie ad abbandonare Londra dopo 7.300 giorni (ovvero 20 anni), come dice Frank in Farewell to My City. Tutti questi cambiamenti hanno inevitabilmente influenzato i temi dell’album, che è un disco molto personale come probabilmente non avveniva dai tempi di Tape Deck Heart, o forse anche più indietro a Love, Ire & Song.

A livello musicale FTHC è un disco che cerca di abbracciare un po’ tutti gli stili che Frank ha adottato nel corso degli anni: ci sono le canzoni cantautoriali chitarra e voce (A Wave Across a Bay), i pezzi hardcore punk veloci, brevi e scatenati (Non Serviam, My Bad), pezzi rock con riff di chitarra e ritornelli potenti (Haven’t Been Doing So Well, Punches) e pure dei brani spoken word come la traccia di chiusura. Se questa varietà non è necessariamente un male e anzi tiene vivo l’interesse per il disco, purtroppo ci sentiamo di dire che nessuna delle 14 tracce sembra avere il mordente o la catchiness per diventare un “instant classic”, e anzi vari pezzi danno l’impressione di essere filler -pensiamo soprattutto a Perfect Score o Little Life- senza che emerga nulla di veramente memorabile; un po’ come accaduto in No Man’s Land, ma lì almeno c’era un concept coinvolgente a sostenere l’album.

Qua e là notiamo riff, passaggi strumentali, linee vocali e melodie che sanno già di sentito (e vabbè, al nono album ci può stare), ma soprattutto non possiamo fare a meno di dire, con un po’ di malignità forse, che i 40 anni di Frank si sentono tutti nei testi. Se sono toccanti e di alto livello brani come A Wave Across a Bay (dedicata all’amico Scott Hutchison, frontman dei Frightened Rabbit che si è tolto la vita nel 2018) e Farewell to My City (una breakup song dedicata a Londra scritta dopo l’addio alla città), importanti per Frank pezzi come Miranda (che celebra il riavvicinamento al padre dopo il cambio di sesso di quest’ultim*) e Fatherless, in altri brani l’approccio è direttamente da boomer, in particolare quelli che nascono dall’esperienza con il lockdown. Little Life e The Gathering potrebbero essere state scritte da un cinquantenne incallito (andatevi pure a leggere i testi, madonna santa), e quando alza i ritmi come nei brani “hardcore” mancano la carica, l’energia e la fiammella che dovrebbe accendere la passione in un pezzo: ascoltandoli viene solo in mente il meme di Steve Buscemi che dice “how do you do, fellow kids?” Insomma, FTHC è l’album che certifica l’invecchiamento di Frank Turner, e nonostante nel complesso non sia un disco da cestinare, ci sentiamo di dire che andrà dritto dritto a occupare l’ultimo gradino nella scala della discografia del quarantenne artista inglese.

Frank Turner sarà in Italia il 6 maggio 2022 per un’unica data ai Magazzini Generali di Milano (info evento).


William Ryan Key – Everything Except Desire

(Equal Vision/Rude Records, 11 febbraio 2022)

Avevamo un pochino perso le tracce -quantomeno musicalmente- di William Ryan Key negli ultimi anni. Del resto, l’ex frontman degli Yellowcard aveva pubblicato due EP nel 2018 (Thirteen e Virtue) per poi ritirarsi in un lungo silenzio discografico. L’artista di Jacksonville lo interrompe ora con un nuovo EP che arriva per Equal Vision Records/Rude Records, e ci lascia davvero spiazzati. Se i primi due EP erano molto cantautoriali basati su chitarra e voce, qui WRK cambia totalmente direzione proponendoci un disco di musica elettronica. Non immaginatevi Skrillex o i Prodigy, eh: stiamo parlando di elettronica downtempo, riflessiva, minimale. Loop ed effetti al computer quasi spettrali, molto atmosferici, ampi e spaziosi, su cui si innesta la voce di Ryan posata e meditabonda (tranne nell’opener The Swim Back, che non ha vocals); inutile specificare che il mood triste e malinconico è quello prevalente in tutte e cinque le tracce. Lo era già negli EP, ma l’assenza della chitarra e la voce ancora più trattenuta dell’artista comunicano un’infelicità viscerale, che entra in contatto con le parti più profonde dell’anima. Non sappiamo cosa sia successo nella vita personale del cantautore negli ultimi anni, ma ci auguriamo che questi cinque brani possano aver avuto una funzione catartica per lui. Everything Except Desire non è un ascolto facile: i brani arrivano tutti a cinque minuti e oltre tranne il singolo Face in a Frame (forse il più “accessibile” anche come sound), richiedono capacità di attenzione e un ascolto concentrato e ripetuto, probabilmente anche un mood incline a percepire le vibrazioni emotive racchiuse nei pezzi. William Ryan Key non si è certo scelto una strada facile, perché queste canzoni in termini commerciali hanno pochissimo potenziale, ma a chi ha il cuore e la pazienza di scartarle e analizzarle a fondo regaleranno emozioni e sensazioni durevoli nel tempo.

 


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