Gli album del mese: Underoath, La Sad, Delaire the Liar & more

Underoath – Voyeurist
(Fearless Records, 14 gennaio 2022)
Sono tornati gli Underoath e adesso parlano male di Gesù. La band è passata dal litigare parecchi anni fa con i Nofx durante un Warped Tour perché Fat Mike prendeva in giro le sessioni di lettura di gruppo della Bibbia che il quintetto teneva ogni giorno, allo scrivere testi come “Fuck your revelation and fuck your weak conviction / I am finally exposing the truth” o “Darker than heaven, empty as God / There is nothing to live for”, con la volontà dichiarata di rinnegare il proprio passato di portavoce del metal cristiano. Voyeurist, il nono album degli Underoath nonché il secondo dopo la reunion del 2015, non è comunque solo un disco di presa di posizione; temi come l’approccio alla vita e alla morte, la depressione, la malattia e l’introspezione pervadono buona parte delle dieci tracce che si concludono con la potentissima Pneumonia, un bestione di 7 minuti tra passaggi quasi ambient e breakdown violenti dedicato alla memoria del padre del chitarrista Tim, morto appunto per una polmonite durante i mesi di scrittura del disco. A differenza del precedente Erase Me (2018), che aveva un sound più “commerciale” e “moderno”, anche un po’ ibrido con il rock elettronico, qui la band vira decisamente verso il sound dei suoi grandi album come Define the Great Line o Ø (Disambiguation). Le canzoni sono più complesse, più viscerali, strizzano meno l’occhiolino ai ritornelli catchy e alle strutture convenzionali in favore di synth più atmosferici e soprattutto tanta, tanta heaviness in più. Gli scream di brani come Damn Excuses o Cycle sono fra i più brutali che la band della Florida abbia mai messo su disco, e certi passaggi lasciano sorpresi ed esaltati anche dopo ascolti plurimi. Erase Me era un buon disco, ma la sensazione è che gli Underoath diano il meglio di sé quando scatenano tutta la propria rabbia, e Voyeurist lo fa alla grande.
Sanlevigo – Un giorno all’alba
(self-released, 3 dicembre 2021)
Non si direbbe nemmeno lontanamente ascoltandolo, ma Un giorno all’alba è l’album di debutto dei romani Sanlevigo. Il sound, l’approccio, ma soprattutto la visione artistica che stanno dietro al disco sono quelli di una band scafata che verosimilmente scrive e compone insieme da anni e ha raggiunto la chimica necessaria a creare un’opera d’arte ambiziosa tanto quanto omogenea. Un giorno all’alba è infatti un concept album che parla della fine di un amore analizzandola con la teoria delle cinque fasi del lutto di Kübler-Ross, “secondo cui gli stati emozionali che ogni essere umano attraversa nella perdita sono la negazione, la rabbia, il patteggiamento, la depressione e l’accettazione” (brutale copia-incolla delle parole della band perché purtroppo non ci intendiamo di psicologia). E infatti seguendo il percorso delineato dalla celeberrima psichiatra, l’album stesso fluisce in modo progressivo, partendo dalle schitarrate tormentate dei primi brani per arrivare a suoni più ariosi e riflessivi sul finale. Musicalmente i Sanlevigo propongono un rock alternativo che pesca ad ampie mani dall’indie rock, con una spruzzata di emo udibile specialmente nel modo in cui suonano le chitarre (diciamo un po’ alla Brand New), ma anche una buona dose di rock all’italiana che si fa sentire in particolar modo nelle linee vocali che a tratti fanno pensare ai Negramaro. È evidente l’approccio artistico non solo alla musica ma anche ai testi, con numerosi riferimenti colti letterari come quelli a C. S. Lewis, al Cantico dei Cantici, al sonetto 116 di Shakespeare, a Walt Whitman o alla rilettura a opera di Kierkegaard del Don Giovanni di Mozart. Insomma, Un giorno all’alba non è necessariamente un album di difficile ascolto o complicato da approcciare (stiamo pur sempre parlando di un disco rock, e nemmeno eccessivamente sperimentale), ma non è nemmeno un disco usa e getta da consumo immediato; non è uno quei dischi che premuto play permettono di distrarsi al computer o fare altro in giro per casa: merita (e necessita di) un ascolto più attento e concentrato, per assorbire piano piano i testi e cogliere le sfumature sonore e liriche. Il contrario di quello che la musica commerciale prevede, ed è una scelta artistica che va senz’altro apprezzata al di là del gusto personale.
Delaire the Liar – Eat Your Own
(Rude Records, 10 dicembre 2021)
Dopo tanti singoli nel corso degli anni e un EP che però risale a millenni fa (Not Punk Enough, del 2018), abbiamo finalmente una nuova uscita discografica degli inglesi Delaire the Liar, band ancora giovane e davvero interessante intercettata dal sapiente radar di Rude Records. Eat Your Own è un EP che prende il meglio dei tratti che avevano sin qui distinto la band, ovvero le capacità vocali fuori dal comune del cantante Ffin Colley e le intricate trame sonore di chitarre e sezione ritmica quasi da math rock, ma liberando il gruppo dalla trappola della complicazione e del tecnicismo a tutti i costi e fini a sé stessi in favore di un approccio parecchio più melodico, orecchiabile e catchy. La personalità della band è ancora parecchio riconoscibile, ma ora possiamo finalmente canticchiare i ritornelli (in maniera atroce perché non abbiamo la voce di Colley), tant’è che il singolo Furnace è da un po’ di tempo in rotazione su Radio Freccia -dove indubbiamente è una delle canzoni più heavy, ma che dimostra anche quanto i Delaire the Liar abbiano saputo adattare il proprio sound. Musicalmente, Eat Your Own prende tanto dai Dance Gavin Dance quanto dai My Chemical Romance, inserendosi fra l’emo e il post-hardcore con testi che riflettono molto su emozioni e sentimenti personali, avendo spesso a che fare con temi anche pesanti come il suicidio, la necessità di chiedere aiuto e la fragilità emotiva nelle relazioni.
Gli Incubi di Freud – Sistole
(self-released, 10 dicembre 2021)
Band marchigiana figlia del lockdown (una descrizione che probabilmente ci porteremo dietro ancora per qualche anno), Gli Incubi di Freud debuttano con questo EP di cinque tracce -più un’intro- che fa del rock il proprio grido di battaglia. Sistole è un disco che è una sorta di dichiarazione d’amore alla chitarra: infarcito di assoli, di linee strumentali “alla hard rock”, di passaggi che usano le sei corde per dare tutta la carica possibile, ma anche per esplorare i vari percorsi che si possono intraprendere quando si decide di fare “il rock”. Siamo in presenza infatti di un EP che non si fa certo rinchiudere in un solo genere: se il rock è la linea portante del disco, i brani svariano molto volentieri -spesso anche all’interno della stessa traccia (vedi Fly)- tra momenti quasi post-hardcore, pause di riflessione vicini alla ballad, suggestioni alternative rock e indie. Molto interessante la performance vocale del leader della band Joshua McFarrow, che denota non solo una buona tecnica ma soprattutto la capacità di “entrare” nei pezzi per conferire la resa emotiva e la carica che questi necessitano. D’altro canto, impossibile non accorgersi di come quasi tutti i pezzi tendano a essere parecchio lunghi, a volte fin troppo come nel caso di Miglior attore non protagonista, dilungandosi in appendici che non sembrano veramente necessarie. Se impareranno l’arte della sintesi, Gli Incubi di Freud potranno diventare una band molto solida e carica al punto giusto per portare in giro questo genere che è dichiarato morto da almeno vent’anni ma che rifà costantemente capolino nelle radio, nelle playlist e nelle venue di tutto il mondo.
Miriam Ricordi – Cibo e sesso
(Rodaus, 7 gennaio 2022)
A più di quattro anni da Persuadimi, la pescarese Miriam Ricordi ritorna con un album in studio full length, per otto tracce dove il rock è il sound predominante ma che fanno dell’eclettismo e dell’esuberanza la propria bandiera. In poco meno di mezz’ora di musica, Cibo e sesso (“bisogni naturali e vitali, spesso canalizzati e soffocati da regole sociali”, spiega l’artista) ci fa viaggiare tra brani scatenati, scanzonati e strabordanti di energia come Siamo Sordi davvero o Mi esplode la testa, ballad più rilassate come Tutto al suo posto o Ossa rotte e pezzi di un rock più classico come Metabolismo o Venezia. Ma è all’interno dei brani stessi che sentiamo colori, sensazioni, immagini e influenze variopinti che ci fanno pensare che Miriam abbia passato gli ultimi vent’anni della propria vita ad ascoltarsi tutta la musica che sia stata prodotta da quando esiste il concetto di “musica popolare”. Mi esplode la testa, potentissima opener quasi da togliere il fiato, musicalmente potrebbe collocarsi su qualche album dei Green Day dalle parti di Stray Heart o di Brain Stew, mentre altrove (vedasi in primis Pronto dottore) troviamo un uso interessante del sax che ci catapulta in un fumoso jazz club newyorkese anni ’50. Altre canzoni tradiscono fin dalla prima nota le proprie origini italiane: è il caso di Ossa rotte o di Metabolismo, nonostante l’artista provi a camuffarle un pochino usando un organo a stelle e strisce anni ’60 nel primo caso o citazioni sonore dei Rolling Stones nel secondo; un’impressione che forse ci viene suggerita anche dalla voce di Miriam, che sa essere dolce ma che in molti casi diventa aggressiva e a tratti graffiata, un po’ come quel timbro che abbiamo imparato a conoscere da una nostra connazionale come Gianna Nannini. Quello che alla fine colpisce davvero di Cibo e sesso è però che possono cambiare le sonorità e il tempo dei brani, ma in ogni suo istante è un album che comunica gioia e mette voglia di vivere.
Theo x Plant x Fiks / La Sad – Sto nella sad
(self-released, 14 gennaio 2022)
Con il revival pop punk fatto partire artificialmente da Machine Gun Kelly e Travis Barker un annetto fa, in tutto il mondo è tornata a spuntare fuori una serie di nuovi performer e gruppi che propongono questo genere seguendo la scia dei due artisti americani: un genere che prende le chitarre dei gruppi più in voga nei primi 2000 (Blink-182, New Found Glory etc.) mescolandole con elementi emo-trap e hip hop per creare il pop punk anni 2020. In Italia il progetto con più hype è quello formato dall’unione di Theo, Plant e Fiks, noto come “La Sad”, che cantano in italiano come va di moda di questi tempi. Sto nella sad è il loro primo disco full length; musicalmente è un album molto compatto e con un gran bel tiro, aggiornato alle sonorità che dovrebbero essere cool in questo momento, ed è un discorso valido al di là dei gusti personali -a me questo modo di fare emo/pop punk non piace, per dire, ma capisco benissimo chi si sente esaltato ascoltando questi tre ragazzi, anche perché pochi altri generi ti trascinano come sanno fare le chitarre pop punk, specialmente quando sei adolescente o nei primi vent’anni, e ci siamo passati tutti. Davvero molto bene a livello di sound quindi. Impossibile invece soprassedere sui testi, che vertono interamente su due soli argomenti: “le bitches” che ti spezzano il cuore e ti distruggono “la life”, e l’uso “della cocaine e degli Xan”, psicofarmaci e droghe varie. Anzi, il trio insiste talmente tanto su quest’ultimo tema da dare l’impressione che si sforzi apposta di apparire come un trio di bruciati la cui vita dipende “dalle drugs”, più per essere relatable nei confronti del pubblico-target (teenager e young adults, per prendere in prestito una classificazione letteraria e cinematografica) che altro -e qui viene in mente una frase di Frank Turner che a proposito degli artisti alla moda cantava “it’s all sex, drugs and sins, like they’re extras from Skins, but it’s okay ‘cause they don’t really mean it”. Se poi pensiamo che uno dei tre ha 35 anni, molti testi sfociano direttamente nel ridicolo, ma tant’è; del resto parliamo di un genere che non ha mai davvero fatto dei testi profondi il proprio cavallo di battaglia, e siamo sicuri che il tentativo di sembrare cool otterrà l’effetto desiderato. In Italia ad ogni modo sono i primi a proporre questo sound ad alti livelli, per cui gli va riconosciuto il merito dell’effetto novità.
Crisso – Porto Pazienza
(self-released, 14 gennaio 2022)
Poco più di due anni dopo l’uscita del suo primo disco Zugzwang, Crisso torna con il suo “sophomore record” intitolato Porto Pazienza, un’espressione dal doppio significato che si può intendere sia come atteggiamento (quello di portare pazienza, appunto) verso la vita e verso la musica, sia come toponimo (un porto dove “flussi di pensieri ormeggiano e divagano con lo scopo di aprirsi a nuove riflessioni”). Crisso potrebbe definirsi un rapper, principalmente perché il suo cantato è prevalentemente rappato, ma se nel disco ci sono innegabili influenze hip hop, è anche altrettanto vero che buona parte delle canzoni divagano dalla semplice recitazione di parole su un beat: ci sono brani vicini all’R&B e al new soul (su tutti, Freddy Krueger), altri dove prevalgono sonorità arabeggianti-mediorientali come in Attenzione, pezzi pop rock suonati in acustico (L’artista) e anche una closing track, N.B., che consiste in sei minuti di effetti sonori e vocali anche un po’ disturbanti. Porto Pazienza è un album vario anche a livello linguistico: se giochi di parole e rime non convenzionali fanno parte dell’immaginario hip hop, più particolare è la scelta di mescolare lingue e culture diverse, con testi cantati non solo in italiano ma anche in inglese, arabo e napoletano. E a proposito dei testi, Porto Pazienza è un disco in cui Crisso affronta per la prima volta anche temi politici, caratterizzati da undertones pseudoanarchici, oltre a più classici dissing nei confronti di chi gli sta sul cazzo, di chi lo opprime, gli tarpa le ali o finge di essere chi non è solo per rincorrere uno sfuggente successo. Meno classici sono invece i frequenti passaggi in cui Crisso parla delle proprie debolezze, dei propri difetti e specialmente della constatazione della propria mediocrità, in un mondo dove ogni artista sembra sempre intento ad autopomparsi e far vedere quanto è figo e popolare. Il rap non è un genere che bazzichiamo di frequente, ma Crisso lo fa in un modo che può risultare interessante e digeribile anche a chi segue ascolti di tutt’altro tipo, grazie alla varietà di suoni e influenze presenti in Porto Pazienza e ai testi che si allontanano dalla media del suo genere.
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