Narratore Urbano: “Fare musica in questo periodo è un atto rivoluzionario” / Intervista

Narratore Urbano (pseudonimo di Alekos Zonca, classe 1998 di Torino) è una delle proposte emergenti più originali nell’attuale panorama musicale. Gli scenari dipinti nelle sue canzoni mescolano cantautorato alternativo e conscious rap, con un occhio di riguardo verso le tematiche sociali. Il suo debut album, uscito per Pan Music pochi mesi fa, si intitola Due anni e raccoglie i sei brani dell’EP Fine delle trasmissioni e i singoli standalone usciti successivamente.
Abbiamo intervistato Narratore Urbano in occasione del suo concerto al Cortile Café di Bologna, lo scorso 12 maggio.
Questa settimana stai suonando per le strade di Torino, hai suonato anche con gli Eugenio in Via Di Gioia. Com’è stata finora questa esperienza?
Partiamo dal presupposto che Torino ha una scena che tra due anni, se continua a lavorare bene come ha dimostrato di saper fare, secondo me è in grado di piazzarsi bene a livello nazionale. È una scena attiva, sta sfornando gente che sta dimostrando di spaccare. Quando è venuto fuori che l’Eurovision sarebbe stato a Torino la cosa che è venuta fuori è stata “Quella settimana dobbiamo suonare tutti, tutto il tempo, ovunque, e farci conoscere”; il comune poi ha fatto una selezione molto poco corretta: doveva essere una cosa dove si enfatizzava la scena torinese e della scena torinese c’erano due nomi. Post-covid Torino si è ripigliata bene; non sono usciti nomi nuovi, però abbiamo consolidato quelli che c’erano già, che non è scontato, e sono tanti: considera che si contano tra i 150 e i 200 artisti, che per una scena di un milione di abitanti non è poco; più la gente che gravita attorno a Torino. Non so come funziona in altre città, so solo che se gli Eugenio in Via Di Gioia suonano in strada chiamano gli artisti emergenti, perché loro sono quel tipo di persone che vogliono spingere gli artisti emergenti e ci credono tanto.
Per quanto ti riguarda, questa è forse l’incarnazione più fedele al nome “Narratore Urbano”.
Sì, ma è un’incarnazione che non funziona. Dipende da dove vado a suonare; l’altro giorno ho suonato in una via abbastanza borghese di Torino, era quasi una provocazione, volevo vedere cosa succedeva: non mi ha cagato nessuno, come volevasi dimostrare. La musica te la devi andare a cercare, le persone giuste devono trovarti. Per ogni cento persone davanti a cui canterò ce ne sarà almeno una che si vorrà fermare e quell’una – si fermano essenzialmente giovani; io odio i vecchi e loro odiano me, perché gli dico le cose come stanno, cioè che stanno rovinando questo Paese – sarà quella che in futuro si ricorderà e si sentirà magari ispirata o l’avrò fatta sentire meno sola. Il problema della nostra società è che ci sentiamo fottutamente soli, perché siamo incollati ai telefoni; Instagram ti fa sentire solo perché vedi che tutti gli altri hanno successo e tu sei l’unico che ancora adesso spera di sfondare nella musica. Voglio far sentire meno solo qualcuno, l’obiettivo è quello.
L’Eurovision Song Contest è un’opportunità di rilancio per la musica in Italia?
No, perché l’Italia deve anche offrire qualcosa. Torino si è ri-creata con questa scusa dell’Eurovision: come scena musicale abbiamo preso una coscienza, che c’era già ma era stata messa un po’ da parte nelle battute finali della pandemia e adesso sta provando a riprendersi – ma sarebbe fisiologicamente successa comunque, in un’altra maniera. Mentre invece il palco in sé, la situazione dell’Eurovision, per me è una gran buffonata.
Secondo me l’Italia sta vivendo l’Eurovison come un Sanremo-bis, per sfruttarlo più dal punto di vista televisivo che musicale.
Il pubblico non lo educheremo mai. Si nota palesemente quando hai il palco delle 5 che è semideserto – e non è una questione di orari di lavoro, è questione che alle 5 suonano quelli che non conosce nessuno. Appena c’è il nome grosso hai il Parco del Valentino imballato, perché la gente va a vedere il nome grosso. E tra l’altro non siamo musicalmente acculturati. Abbiamo un problema di “sindrome della personalità”: ci interessa più la persona del musicista; la gente vuole fare la foto con Mahmood e Blanco, non ascolta Brividi; vuole fare la foto con i Måneskin, non ha ascoltato Zitti e buoni. Poi ci sono artisti che “cavalcano” questa cosa e vivono della loro immagine; però smetti di essere un artista.
Manca la curiosità di scoprire cose nuove.
Sì, acculturare in quel senso. Però la curiosità ti viene solo se hai una cultura di base; se ti informi, se ti vuoi fare una cultura per tuo interesse personale. Io ho avuto questa esperienza: Rockit ha creato un bando per andare a suonare a Sanremo, nell’Open Stage: sono passato e sono andato a suonare nel palazzetto dove c’è tutta la stampa; sei lì, nella settimana giusta, dove ci sono tutti gli addetti ai lavori. Ma per me è stata l’esperienza più brutta della mia vita: mi ha fatto capire che cosa non va; ho realizzato che Conte, quando se n’è uscito con la frase “Gli artisti che ci fanno tanto divertire” – quando l’aveva detta mi ero incazzato tantissimo –, non ha detto una minchiata. Perché il pubblico vuole quello. La stampa vuole Sanremo, non la musica di Sanremo.
Sulla tua bio di Instagram leggiamo “Di professione essenzialmente insulto”. C’è anche un lato più propositivo, oltre a quello di denuncia sociale?
Secondo me io non sono la persona indicata per dare delle soluzioni. Ma non è in generale l’artista quello che se ne deve occupare; il compito dell’artista è parlare a qualcuno: io quando ascolto la musica voglio sentirmi raccontare delle cose interessanti, voglio avere degli stimoli su cui poi fermarmi a riflettere. Chi ascolta la musica lo fa perché vuole trovare un amico nella musica; vuole trovare, magari, quella persona che ti dice le cose giuste al momento giusto. Ed è lì che entra in gioco la parte strumentale, con il giusto mood e la giusta situazione, la giusta sequenza di note che ti crea una certa emozione di cui in quel momento hai bisogno. Lì scatta la scintilla d’amore con l’artista in questione. E quindi il mio compito non l’ho mai visto come un dare delle proposte – che ho, ma non penso che le scriverò nelle mie canzoni. Io mi chiamo Narratore Urbano, se no mi chiamerei Propositore Urbano o qualcosa del genere. E poi serve una persona competente per fare determinate proposte o comunque che abbia una certa sensibilità. Magari il mio obiettivo potrebbe essere sensibilizzare quello che poi un domani potrà trovare la proposta giusta.
Già criticare può essere una forma di proposta.
Sì, però non voglio avere quella presunzione. Ho sempre scritto le canzoni cercando di essere nelle scarpe di qualcun altro; e nel momento in cui mi metto nei panni degli altri non posso fare delle proposte, sto raccontando una storia. Poi se vuoi capire da quella storia qual è il mio punto di vista è abbastanza palese, ma non te lo dico esplicitamente. Te lo dico nel momento in cui scrivo una canzone sull’argomento, perché già scegliere di scrivere una canzone sull’argomento è una scelta politica; anzi: fare musica in questo periodo, qualsiasi forma essa sia, è già un atto politico, rivoluzionario.
Anche quella più disimpegnata, più mainstream, più trash possibile?
Sì, perché comunque è un ribellarsi alla staticità delle cose. Stiamo vivendo in un periodo in cui siamo tutti mentalmente statici, siamo chiusi in noi stessi, siamo incazzati; abbiamo passato due anni di merda in pandemia e siamo sull’orlo di una terza guerra mondiale che non si sa se scoppierà o meno, ma c’è questo spettro sempre più grosso. La gente non ce la fa più. Paradossalmente scrivere una canzone disimpegnata di questi tempi può essere veramente un atto rivoluzionario.
Sempre sui social ti definisci “socialmente incazzato”. Per che cosa sei incazzato in questo momento?
Per tutto quello che ti ho detto prima: è dal 2019 che stiamo vedendo una parabola discendente sempre verso il peggio. La democrazia è in crisi. Ci sono personaggi come Matteo Salvini e Giorgia Meloni che sono un pericolo pubblico e ho ancora più paura di personaggi come Pillon; dall’altra parte sono sempre più disgustato da quella che si professa sinistra e poi non prende posizione. Hai questo conflitto irrisolto e nel mentre, intorno, sta succedendo il finimondo. Ci sono dei diritti civili da rivendicare: da una parte si sta finalmente prendendo coscienza dei diritti LGBTQ+, si sta cercando almeno nelle nuove generazioni di risolvere il problema del razzismo, c’è una tendenza all’essere aperti da questo punto di vista; dall’altra fai dieci passi indietro sull’aborto. Ci sono delle cose che devono essere spinte, bisogna incazzarsi su certe cose per ottenerle, ora come ora. Poi nel momento in cui ci sono personaggi come Salvini, Meloni, Pillon… ma Renzi: lui ha fatto più disastri degli altri tre messi insieme, almeno loro hanno governato poco; se adesso gli studenti muoiono sul lavoro sottopagati è perché Renzi ha fatto leggi scellerate come l’Alternanza e il Jobs Act; per me Renzi è la più grande piaga che sia successa in 70 anni di storia politica italiana.
Studi all’università?
Studio storia: sono specializzato in Storia contemporanea dell’Italia, quindi se ti dico che questi personaggi qui sono una piaga è perché ti posso fare tranquillamente i confronti con Moro, con Berlinguer… forse solo Andreotti è stato più devastante, ma per altri motivi. L’incazzatura sociale è una cosa che voglio alimentare: se ci si può incazzare – ma per le cose giuste e con la quantità giusta – bisogna rivendicare il nostro futuro, i nostri diritti, perché è quello che stiamo andando a perdere. Noi, come generazione che non ha avuto voce in capitolo – perché siamo in un paese governato da vecchi e da persone che fanno gli interessi dei vecchi, siamo una gerontocrazia –; noi, che siamo quello che potrebbe essere il motore del paese, stiamo perdendo il nostro spazio, la nostra voce, la qualità sull’informazione…
Hai annunciato che presto ci sarebbe stata una nuova “Aurora Futura”. Ci puoi dire qualcosa?
È un pezzo che andrà a chiudere il mio secondo lavoro; al momento è quello a cui sono più affezionato, perché riassume molte delle cose che ho detto in questa intervista. Paradossalmente potrebbe essere il pezzo non ti dico più propositivo che ho scritto, sicuramente un pelino speranzoso, ma con la giusta dose di disillusione. È il pezzo che sono più felice di avere scritto, forse dopo Granchietti. Stiamo lavorando al nuovo disco, ho cambiato produzione. Concettualmente vado a prendere da una parte i Nirvana – ho realizzato che sono l’unica band che ha saputo interpretare il sentimento post-pandemico, in anticipo di 30 anni: quello che ho sentito durante la pandemia è tutto nei pezzi di Cobain e sono rimasto sbalordito; li ho sempre ascoltati, ma non li ho mai amati e capiti così tanto –, quella sarà la via futura: ci sarà un ritorno di quella visceralità, di quel Cobain fuori dalle righe ma sentimentale; e anche dei Nirvana italiani, i Verdena. Dall’altra vorrei fare uscire sempre più la mia radice hip hop, che c’è sempre stata ma non troppo: quindi sarà più metrica.
Narratore Urbano sarà in concerto il 3 giugno al CultFest di Pavia, in apertura a Giancane.
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