Simple Plan – Harder Than It Looks / La recensione

di Simone De Lorenzi
Se nel 2022 parlare di pop punk è diventato sinonimo di contaminazioni emo-trap, con il nuovo album Harder Than It Looks i Simple Plan ci dimostrano che è ancora possibile parlare di revival prendendo strade alternative, che riconducono al punto di partenza facendogli fare un passo in avanti. Se nel precedente Taking One for the Team (2016) abbondavano le sperimentazioni in chiave pop, ora la direzione presa è quella di un genuino ritorno alle origini, sul quale ha sicuramente influito la libertà di pubblicare da indipendenti. È infatti la prima volta senza un’etichetta discografica – oltre che senza l’apporto del bassista David Desrosiers, uscito dal gruppo nel 2020.
Già i singoli che avevano anticipato il disco avevano fatto intuire dove volesse andare a parare il quartetto canadese: da The Antidote a Congratulations, da Ruin My Life – con la super collaborazione di Deryck Whibley dei Sum 41 – a Wake Me Up (When This Nightmare’s Over), c’era stato un chiaro segnale della volontà di un throwback al pop punk dei primi anni Duemila.
Quest’anno No Pads, No Helmets… Just Balls giunge al suo ventesimo compleanno; e proprio la prima traccia del loro debut album, I’d Do Anything, viene inserita a mo’ di easter egg all’interno della canzone d’amore Million Pictures of You, senza dubbio la più catchy del disco. La palma di migliore brano però se la aggiudica Best Day of My Life, un pezzo dai ritmi punk che comincia tiratissimo e trascina fino alla fine. In chiusura ritroviamo l’emotività con la piacevole Slow Motion e con Two, struggente ballad sul divorzio.
Non convincono troppo Anxiety, che vira su ritmi fin troppo placidi, e Iconic, in cui i Simple Plan decidono di accompagnare una base tutto sommato buona con trombe e coretti “na-na-na”, in un tentativo di pezzo da stadio (“anthemic”, direbbero oltreoceano) che tenga fede al titolo della canzone. Forse non è un caso che a mettere il piede in fallo siano gli unici due brani che si distaccano dal lato più rock del gruppo per abbracciare quel pop che in certi lavori passati aveva mostrato i suoi limiti: se la prima canzone finisce per annoiare, la seconda rischia di essere una brutta copia dei Fall Out Boy.
Le tematiche sono le solite; ma se nei primi dischi riferirsi a solitudine, paura, cuori spezzati, ansia e desiderio di rivalsa serviva a manifestare slanci di rabbia e angoscia tipicamente adolescenziali, da un po’ di anni a questa parte prevale l’effetto consolatorio: rassicurare i propri fan, con la consapevolezza di chi ci è passato ed è cresciuto, sulle angosce della vita – fratelli maggiori che ti accompagnano verso la maturità.
A tratti si sente l’influenza di suoni più puliti, eredi di pop rock e power pop dei dischi più recenti, ma la bravura dei Simple Plan, a questo giro, è stata mescolare le componenti maturate durante questi venti e più anni di carriera in un sound che non snatura il pop punk delle origini.
VOTO: 4/5
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