Gli album del mese: Sincere Engineer, Liz Lawrence, The Bots & more

3OH!3 – Need
(Photo Finish Records, 27 agosto 2021)
Erano passati ben cinque anni dall’uscita dell’ultimo album dei 3OH!3, storico duo MySpace-trash crunkcore: Night Sports era stato pubblicato nel 2016 addirittura da Fueled by Ramen e conteneva la geniale hit My Dick. La band ora è sotto Photo Finish Records e ci propone questo Need, un disco di dieci brani più un interludio da film western. Visto che siamo nel 2021 e il pop punk sta tornando di moda, Need presenta un brano che appartiene a questo genere come seconda traccia (I’m So Sad), così, giusto per tentare la scalata di qualche playlist o circuito radiofonico; per il resto si tratta dell’unica presenza di chitarre rock in un disco decisamente elettronico, e trattandosi dei 3OH!3 non potrebbe essere altrimenti. Da notare i feat. con i 100gecs su Lonely Machines e con Bert McCracken dei The Used su Vampire’s Diet, e il brano ABCs che è una sorta di My Dick, nel senso che è una canzone dal testo stupido e senza senso (i 3OH!3 elencano una ragazza con cui sono “usciti” per ogni lettera dell’alfabeto) su un beat abbastanza catchy e immediato. In generale però sembra che alla maggior parte dei brani manchi quel qualcosa che li renda degni di nota o veramente convincenti. Nell’ultimo album c’erano brani come appunto My Dick o anche 7-11 che facevano pensare “geniale!” anche se erano idioti, qui semplicemente non ce n’è nessuno.
Grayscale – Umbra
(Fearless Records, 27 agosto 2021)
Sembra passato un decennio da quando i Grayscale pubblicavano il loro album d’esordio Adornment, che tra un feat. con Patty Walters e un singolone come Forever Yours proiettava la band tra le più interessanti promesse della nuova scena pop punk; invece era appena il 2017. Dopodiché il gruppo di Philadelphia, forse fiutando anche il brusco calo di popolarità di quel genere, aveva spiazzato un po’ tutti pubblicando un album come Nella Vita (2019), dove di punk c’era ben poco e restavano solo alcune chitarrine parecchio indie. Su Umbra, terza prova full length del quintetto di Fearless Records, i ragazzi proseguono ancor più sulla strada intrapresa col disco precedente alla ricerca della canzone leggera, melodica e di facile ascolto per tutte le orecchie: ogni canzone di Umbra potrebbe infatti passare su una radio mainstream qualsiasi. Quest’approccio molto pop però alla lunga sembra ledere al disco più che dargli un vantaggio: tolto l’ottimo singolo Dirty Bombs, il resto dei brani non ha la scintilla che li renda memorabili o li faccia risaltare sulla massa delle undici tracce dell’album, e la produzione sempre simile li fa sembrare un po’ tutti uguali. Alla fine dell’ascolto si resta con l’impressione che ogni canzone sia una traccia scartata durante le sessioni di registrazione di uno dei primi due album dei The 1975.
The Bots – 2 Seater
(Big Indie Records, 8 settembre 2021)
Due dischi fra tarda adolescenza e primissima young adulthood, i più importanti palchi dei festival mondiali, e poi una lunga pausa durata sette anni. Tanti ne sono passati fra l’uscita del secondo album dei The Bots (Pink Palms, 2014) e il nuovo disco, questo 2 Seater che esce per Big Indie Records e contiene dieci tracce scritte da Mikaiah Lei fra i diciannove e i ventidue anni, e riscritte e riregistrate ora che l’artista ne ha ventotto e ha finalmente trovato le parole adeguate per esprimere i pensieri di allora. Quali pensieri? Gli alti e i bassi delle storie d’amore giovanili, la necessità di coltivare le amicizie, e il lavoro sui sentimenti che serve per prendersi cura di sé stessi ogni giorno. I dieci brani occupano quaranta minuti di tempo (una durata quasi geometrica); alcuni di loro, principalmente 2U, Scatter Brains e See It, possono esaltare sia le persone a cui piace l’indie rock sia quelle a cui piace il punk alla Fidlar, Pup e quel tipo di sound. In generale però il disco è molto meno influenzato dal punk rock che in passato e molto più affine a sonorità Pitchfork Festival-friendly. A volte si ha l’impressione che questo disco badi più a sviluppare a mantenere costante una certa vibe che a cercare in modo spasmodico la melodia istantaneamente catchy e memorabile, e probabilmente è giusto così. Da gustare sul main stage di qualche boutique festival nel Centro Europa.
Hawthorne Heights – The Rain Just Follows Me
(Pure Noise Records, 10 settembre 2021)
The Rain Just Follows Me è il settimo album di inediti degli Hawthorne Heights, a cui vanno aggiunti tre maxi-EP di 8-9 brani ciascuno, per una discografia parecchio estesa, anche nel tempo -l’esplosione della band era avvenuta all’apice del periodo emo nel 2004-2005. Nonostante gli anni sul groppone, la band sembra comunque continuare a divertirsi abbastanza da pubblicare una discreta quantità di nuova musica e di girare il mondo in lungo e in largo in tour, per lo più ormai come band di spalla a gruppi più quotati presso il pubblico attuale. Fino allo scorso album Bad Frequencies (2018) la band sembrava in forma smagliante; anzi forse le due uscite migliori sono state proprio quel disco e l’EP che lo ha preceduto (Hurt, 2015). Su questo nuovo disco la formula che il gruppo utilizza non è cambiata di una virgola (un po’ di chitarre post-hardcore, un po’ di ritornelli ariosi pop punk, qualche scream brutto qua e là), ma forse proprio per questo motivo comincia a percepirsi una sorta di stanchezza nelle canzoni. Tutti i brani sono gradevoli, ma nessuno buca veramente l’orecchio, e alla fine le cose migliori del disco le sentiamo quando intervengono gli ospiti: Brendan Murphy dei Counterparts in Constant Dread con i suoi scream perfetti, Anthony Raneri dei Bayside in Spray Paint It Black (forse il miglior ritornello dell’album) e Ryan Key degli Yellowcard in Seafoam (che nostalgia sentire quella voce!). Lunga vita agli Hawthorne Heights, ma questo disco finisce probabilmente in fondo alla discografia del gruppo dell’Ohio, più o meno dove c’è il dimenticabile Skeletons. Solo per i fan più accaniti.
Hot Milk – I Just Wanna Know What Happens When I’m Dead
(Music for Nations, 10 settembre 2021)
C’è stato un periodo in cui pensavo che gli Hot Milk, band britannica in crescita esponenziale da un paio d’anni a questa parte, dopo un inizio pop punk avrebbero ben presto virato su una sorta di pop elettronico mainstream e poco convincente. Il motivo era che nel loro EP d’esordio Are You Feeling Alive? del 2019 compariva una traccia (la title track) EDM/synthpop che lasciava presagire sviluppi futuri poco rassicuranti. Invece quella canzone è quella che del disco ha avuto meno apprezzamenti, e forse grazie anche alla rinascita pop punk post-ultimo disco di Machine Gun Kelly, il duo di Manchester ha spinto ancora di più sul proprio lato rock, come dimostra evidentemente il loro nuovo EP, il primo sotto Music for Nations, storica sussidiaria rock e metal di Sony Music. Le tracce sono cinque, e questo è forse il motivo per cui l’EP è all killer no filler: i ritornelli sono appiccicosissimi, le chitarre trascinanti e l’alternanza tra i vocals femminili di Han e quelli maschili di Jim crea l’armonia perfetta che ci riporta ai tempi in cui i We Are the In Crowd sembravano sul punto di diventare qualcosa di grosso. Anzi, quest’EP è esattamente il disco che ci saremmo aspettati dagli WATIC ma che non è mai del tutto arrivato. Gli Hot Milk hanno qualsiasi cosa per sfondare -non ultima il supporto di una major- e se ciò non dovesse succedere sarebbe quasi inspiegabile.
Sincere Engineer – Bless My Psyche
(Hopeless Records, 10 settembre 2021)
Deanna Belos è stata dapprima per anni una presenza fissa ai concerti della scena punk rock di Chicago; poi, incoraggiata dagli amici, ha imbracciato la chitarra e si è scoperto che aveva anche delle doti da musicista e artista fuori dal comune. Così nasce la sua band Sincere Engineer, che nel 2017 ha pubblicato su Red Scare il disco d’esordio Rhombithian apprezzatissimo nell’ambito punk. Qualche mese fa l’upgrade con il passaggio a Hopeless Records, con cui pubblica ora il follow up Bless My Psyche. È un disco che dura solamente mezz’ora (del resto è un disco punk, le canzoni devono essere brevi e dritte al punto), ma fa in tempo tanto a picchiare duro come negli highlight Trust Me e Hurricane of Misery quanto a respirare e concederci delle pause di qualità, ad esempio Recluse in the Making o Tourniquet. La maggior parte delle canzoni è catchy e sprigiona la giusta energia punk anche quando non sono prettamente punk a livello di sound, i testi sono molto relatable perché parlano di situazioni quotidiane, uscite con gli amici, sensazione di spossatezza dal lavoro e dalla vita, sbronze, concerti e problemi che tutti dobbiamo affrontare; la cosa più sorprendente del disco è però forse proprio la capacità di alternare l’adrenalina con i momenti in cui riprendere fiato, dando un ritmo perfetto a un disco che proprio per questo non ci si stanca mai di far ripartire da capo. I Sincere Engineer sono una band che fa musica con entusiasmo, e quindi l’entusiasmo lo trasmette anche a chi ascolta i suoi brani.
Cécile – La fine della festa
(self-released, 17 settembre 2021)
Progetto strano e sperimentale quello dei toscani Cécile. La fine della festa è il loro lavoro d’esordio, tecnicamente un EP dato che ha sole cinque tracce, anche se la durata sfiora i ventincinque minuti, quasi quella di un album. Il disco sfugge alla categorizzazione, dato che si apre con una lunga traccia spoken word ma prosegue con brani cantati da due diverse voci femminili, salvo una nuova comparsa dello spoken word in traccia 4 -peraltro tanto la voce narrante maschile quanto le due cantanti sono persone esterne alla band, che è poi un duo composto da Stefano Sestani e Tommaso Mori. Musicalmente c’è un’atmosfera piuttosto chill, a tratti crepuscolare, con inserti jazzistici come gli assoli di trombe ma anche occasionali echi più emo/dream pop come nel caso di Secondo notturno. L’impressione è comunque che si sia voluto dare grande risalto all’aspetto dei testi, dal carattere un po’ decadente, un po’ poète maudit della Parigi tardo-ottocentesca. È un progetto per il quale ha poco senso esprimere “critiche” in positivo o in negativo: La fine della festa sembra un lungo esperimento fatto da persone che chiaramente non hanno interesse a ricercare quello che può fare successo o diventare trendy, ma vogliono mettere in chiaro il proprio personalissimo manifesto artistico.
Liz Lawrence – The Avalanche
(Second Breakfast, 17 settembre 2021)
Quello di Liz Lawrence, lo ammettiamo e lo dichiariamo fin da subito, è un disco che a differenza di tutti gli altri abbiamo ascoltato non perché fossimo già fan dell’artista ma per l’assiduità del suo ufficio stampa che ci ha mandato una dozzina di comunicati relativi alle sue uscite negli ultimi mesi. Lei è una cantautrice britannica, ma questo l’avevamo capito prima ancora di leggere la sua bio, fin dalle primissime note del suo nuovo album The Avalanche, terza opera full length della carriera dopo che nel 2019 era uscito Pity Party. Il titolo del disco si riferisce al disegno che ha ispirato le canzoni: The Montafon Letter di Tacita Dean, un disegno di sette metri che prende spunto da una valanga occorsa nel ‘600 in Austria, la quale aveva causato la morte di trecento persone; il prete che era stato mandato a celebrare le esequie fu a sua volta sotterrato da una valanga appena arrivato sul posto, ma poi dissotterrato da una terza valanga capitata poco dopo. Il disco è stato composto e registrato da Liz nella Bara, il nome che ha dato l’artista al suo studio casalingo costruito nella sua città natale, dentro un capanno che apparteneva al nonno. Si diceva che il disco suona molto British: è un lavoro che veleggia fra pop rock e indie rock tipicamente d’Oltremanica. Se ti piace quello che la Perfida Albione ha proposto al mondo dal 2000 a questa parte utilizzando le chitarre, verosimilmente potresti essere interessato da ascoltare quanto Liz ha da dirci su quest’album, ma in realtà può fare al caso tuo anche se ti piacciono Tegan and Sara o i The Killers. Non sembrano esserci brani con il potenziale da singolone su The Avalanche, e forse questa è la pecca principale del disco, però l’opera nel suo insieme scorre parecchio piacevolmente e regala una mezz’ora buona di spensieratezza per staccare un attimo la spina dai pensieri della vita.
Onceweresixty – The Flood
(Beautiful Losers/Uglydog Records, 17 settembre 2021)
Dall’accoppiata di etichette super indipendenti Beautiful Losers e Uglydog Records arriva The Flood, il disco d’esordio degli Onceweresixty. Vicentini, questi tre ragazzi hanno evidentemente più il pallino per la musica internazionale che per quella di casa nostra: loro danno come riferimenti personali Low, Belle and Sebastian e Pavement, ma in realtà ascoltando l’album c’è un grande fantasma che aleggia per tutti i ventinove minuti della durata, ovvero quello dei The Velvet Underground. The Flood suona un pochino come se qualcuno avesse scavato per bene nell’archivio di Andy Warhol e avesse riportato alla luce un antico vaso contenente queste registrazioni -ovviamente con un sound un pochino più moderno, anche nella “pulizia” del suono, per quanto l’intento della band fosse evidentemente quello di rendere le cose il più lo fi possibile. Tra una Rocksong e una Antipopsong, molte delle tracce del disco hanno reminiscenze sonore del sound dei primi due dischi di Lou Reed e soci, anche se i vocals qui sono più eterei, a volte quasi d’accompagnamento; per qualche brano si potrebbe anche azzardare un paragone -con la dovuta prospettiva- più moderno con tracce di Phoebe Bridgers come Kyoto. Notevole anche la presenza in praticamente tutte le canzoni di un synth sugli scudi, spesso distorto, a volte sperimentale, ma sempre in primo piano a giocare con effetti e svolte impreviste.
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