Recensioni al buio: “Uomo stile” by Kokadame

Su richiesta di nessuno, tornano le mitologiche “recensioni al buio”, questa volta su una casa nuova visto che la precedente (aim a trabolmeicher) è defunta nel 2019 in seguito al concerto degli Weezer. Se volete dare un’occhiata al paragrafo in cui pomposamente spiegavamo l’idea dietro alle recensioni al buio, potete farlo qui (non giudicateci per il linguaggio ironicamente ampolloso: eravamo giovani e stupidini).
Parto subito dicendo che Kokadame -almeno a una rapidissima ricerca su Google- è un nome che potrebbe verosimilmente non significare nulla dato che gli unici risultati che mi vengono fuori sono relativi proprio alla band in questione. Quell’aria un po’ giapponese però lo piazza alla pari di parole come edamame, o ikebana, e in ogni caso dà al nome del progetto un suono esotico che fa sempre scena, a maggior ragione in un momento come questo in cui le cose che vengono dal Giappone vanno parecchio di moda.
La band si presenta in un modo che già mi piace parecchio: non ha nessun social, non segue i classici cicli della pubblicazione di un disco nel senso che non pubblica alcun singolo ma spara fuori il disco e basta, e poi registra, mixa e masterizza tutto quanto in autonomia (che poi quest’ultima cosa può voler dire tanta autonomia e libertà creativa ma anche dischi che suonano in maniera atroce, ma questo lo scopriremo a breve). Insomma un incubo per le etichette abituate ai ritmi usa e getta della musica all’epoca dello streaming. Ma anche una bella risposta e una decisa presa di posizione in un’epoca in cui la musica è diventata ormai quasi un rumore di sottofondo da consumare come fosse un qualsiasi prodotto commerciale. Mi sorprende anzi che i Kokadame abbiano caricato il proprio disco pure su Spotify invece che usare solo qualche piattaforma tipo Bandcamp, o meglio ancora pubblicare il disco solo su cassetta o qualcosa del genere, ma mi rendo conto che quello sarebbe stato chiedere troppo.
Il disco in questione è un EP di sei tracce che si chiama Uomo Stile: Kokadame per l’eleganza maschile, che insieme a titoli di brani come Mani in piastra o Caro bignè mi fa capire che la band fa dell’ironia uno degli elementi portanti della propria proposta musicale. Ma siccome mi sono dilungato già fin troppo credo sia ampiamente giunto il momento di premere play su questo EP (su Spotify -ammetto la mia colpa).
La prima canzone si chiama Inquieto/Irrequieto, titolo che fa riferimento alla registrazione con cui si apre il brano ma di cui non sono stato in grado di cogliere la provenienza. In ogni caso appena smette la registrazione parte la musica con un sonoro “Io me ne sbatto dell’inquinamento / E Greta Thunberg mi ha già rotto il cazzo” che mi fa cappottare. L’ironia si taglia con una lama mentre i Kokadame descrivono un uomo italiano medio della nostra epoca, con sonorità super DIY ma che non suonano affatto male: quello che abbiamo su questra traccia è un punk/rock ‘n roll parecchio retrò, quasi anni ’70 -la band del resto lo dice che il disco “attacca il mondo della musica per come si è evoluto e lo trascina indietro di 30 anni” -anche se forse i ragazzi hanno fatto male i conti visto che dagli anni ’70 ne sono passati cinquanta. Caratteristica che balza subito all’orecchio è il cantato stridulo e gracchiante, che penso possa piacere all’incirca allo 0,01% della popolazione italiana (ma forse sono ottimista) e che però imprime una caratteristica veramente particolare al brano.
Alla fine del pezzo ci sono 7 secondi di silenzio, tanto che la traccia 2 parte quasi come le famose ghost track nei CD che si usavano negli anni ’90-2000 e che erano una delle cose bellissime che le piattaforme di streaming hanno ucciso. Si chiama H.P.S.D.M che non significa HiPSter Di Merda ma Ho Problemi Seri Di Masturbazione (tipo A.D.I.D.A.S. dei Korn, diciamo). È infatti un brano che parla di un onanista arrapato (“occhi a pesce quando vedo tette”), e c’è pure un bel doppio bestemmione purtroppo censurato negli ultimi secondi del brano che ci fa pensare agli Umberto Emo e alla loro bellissima Disco Infermo. Musicalmente la canzone parte con un riff di chitarra da epoca d’oro del rock ‘n roll che sarebbe piaciuto a Elvis Presley. Se il primo brano richiamava gli anni ’70 qui andiamo dritti ai ’50; magari sul prossimo ci ritroviamo in qualche fumoso jazz club segregazionista degli anni ’30 e così via fino al Nabucco di Verdi ora della fine.
Ma non divaghiamo, anche perché le sonorità veloci e divertenti e i testi scanzonati dei Kokadame meritano tutta la nostra attenzione. Si prosegue serrati con Quando le stelle esplodono, unico brano senza il parental advisory per il testo esplicito (vergogna, dai, che molli: almeno un “merda” potevate infilarcelo). È un brano molto più tranquillo dei precedenti, sia musicalmente che per il cantato: c’è un ritornello quasi accattivante, una struttura convenzionale, pure un assolo di chitarra un po’ random nel bridge. Sicuramente il brano più standard e melodico fin qua, ma anche decisamente quello che ci colpisce di meno. Se i Kokadame pubblicassero singoli, questo sarebbe quello da mandare in radio (e lo dico come una critica, tiè).
La traccia quattro promette invece alla grande: è quella che si chiama Caro bignè e mi aspetto grandi cose: spero che i Kokadame non mi deludano. E infatti. Caro bignè parte con una sirena della polizia, e non per nulla è una canzone che parla male dei nostri angeli in divisa, specialmente quelli che ti palettano per controllare se hai bevuto. Dopo le concessioni alla radiofonia di Quando le stelle esplodono, ritroviamo tutto il mordente che i Kokadame avevano mostrato nei primi due brani; c’è pure un bel bridge finale parlato che fa un po’ Teste Sciroppate anni ’90.
Un “re dei clown a doppiopetto” è il protagonista di Mani in piastra, canzone che prende di mira i politici che vanno a Roma a fare la bella vita calpestando tutti i valori di cui si riempiono la bocca nelle dichiarazioni ufficiali. Pezzo groovy e incalzante, non si discosta dallo stile sardonico e dissacrante degli altri brani della band.
Il disco si conclude con una canzone che vediamo essere lunghissima, quantomeno per gli standard moderni, con i suoi 5:19 minuti (altra cosa che lo streaming ha ammazzato, non sapere cosa aspettarti da un pezzo in termini di durata: pensa quando mettevi sù un disco dei Nightwish e la prima canzone era a sorpresa una sbrodolata da 13 minuti pieni). Si chiama Preghiera valtidonese -cosa che ci ricorda le origini piacentine dei Kokadame- e vede il featuring dei conterranei Fattore Rurale. Essendo una “preghiera”, le sonorità si fanno un po’ meno grezze e più indie/alt rock melodico, ma qui ci può stare; tanto c’è sempre il cantato rauco a sporcare il tutto, e se possibile il vocalist dei Fattore Rurale riesce a essere ancora più gracchiante, profondo e ruvido.
La preghiera in questione dice qualcosa tipo: “Io prego poco, ma credo tanto / che lui ci salverà: / troppo buono è, / e la verità è che non c’è distinzione e paragone. / Se mi proteggi dal male / io non devo disperare / perché non ti farò più arrabbiare / ma non ti dimenticare di me”. Pensate se le preghiere ufficiali fossero davvero così invece che quelle noiose che ti insegnano a messa tipo “sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”. A messa non ci andrei comunque, ma almeno i bambini di sette anni capirebbero cosa stanno ripetendo a memoria per fare contento l’Altissimo.
Mi sono dilungato e chiedo venia: leggere quest’articolo probabilmente porta via più tempo che ascoltarsi l’EP dei Kokadame, ma se sei arrivato fin qua posso solo dirti di andare ad ascoltare Uomo Stile, anche solo perché è un disco fatto di canzoni divertenti, che a volte fanno ridere (ma anche riflettere?) e che a volte si concentrano un po’ più sull’aspetto specificamente musicale, ma che arrivano dirette e senza fronzoli come le vere produzioni DIY, con in più quel carattere un po’ marcio da veri punk.