Mighty Oaks – Mexico: tutto quello che c’è da sapere sul nuovo album

Mighty Oaks Mexico

I Mighty Oaks potrebbero essere definiti come una “millennial story”, quantomeno per il modo in cui i membri del gruppo si sono conosciuti e hanno deciso di formare una band. Ian Hooper è un americano di Seattle che dopo il college si trasferisce in Germania, dove incontra a un festival indie l’italiano Claudio Donzelli e il britannico Craig Saunders, entrambi expat in terra teutonica. Sembra un po’ l’epitome di una generazione cresciuta con il mito della globalizzazione portatrice di opportunità, del sentirsi cittadini del mondo; quei concetti che la società e la scuola ci facevano assorbire da piccoli e che poi la crisi economica come una bastonata sui denti ci ha costretti a riconsiderare.

Nel loro caso però la millennial story il lieto fine lo sta avendo: i tre ragazzi sono ancora insieme dal 2010 e, sempre di base a Berlino, hanno appena pubblicato il loro quarto album Mexico. È il primo disco che la band pubblica in maniera indipendente, tramite la propria etichetta Howl Records (dal nome del loro primo e apprezzato album Howl, uscito nel 2014), distribuita da Sony. Segue a brevissima distanza All Things Go, che era uscito il 7 febbraio 2020 per BMG e il cui tour aveva necessariamente subito un brusco arresto a causa della pandemia da covid-19 dopo una data in Norvegia.

Impossibilitato a promuovere l’album, il trio si è dato da fare per scriverne uno nuovo, con la speranza di portarlo in giro durante l’estate. Mexico è quindi un disco molto influenzato dalla pandemia e dalle conseguenti tematiche dell’isolamento, del desiderio di fuga -da un luogo così come dai problemi-, della nostalgia per qualcosa che si è perso.

Le settimane passate in casa hanno dato al cantante e chitarrista Ian Hooper l’opportunità di portare a termine un suo vecchio sogno, ovvero quello di costruirsi un proprio home studio. Ed è infatti in casa di Hooper che i Mighty Oaks hanno registrato Mexico, insieme al produttore Nikolai Potthoff che già aveva lavorato a All Things Go, ricreando così quell’atmosfera che esisteva agli esordi della band, quando le canzoni venivano scritte, arrangiate e registrate nell’appartamento di Donzelli. È anche per questo forse che Mexico è un disco molto suonato, dove gli strumenti la fanno da padrona e synth e suoni computerizzati passano in secondo piano, a volte sparendo del tutto.

Musicalmente, Mexico è un disco che attinge a sound del campionario folk, indie e indie rock, con una serie di ballad per chitarra che si fanno sempre più presenti verso il finale riflessivo dell’album. Si tratta di un lavoro che può senz’altro incontrare i gusti dei fan di band come The Lumineers e Mumford and Sons (vedasi la prima traccia Land of Broken Dreams, probabilmente la più folk, o anche il quinto brano Ghost con il clapping in primo piano), ma anche gli estimatori del Frank Turner di The Way I Tend to Be o Wessex Boy possono trovare interessanti spunti di contatto con l’artista inglese. In generale il disco si presta parecchio a un setting dal vivo nel contesto di un festival europeo, ambiente in cui i Mighty Oaks sono peraltro nomi familiari, e a ragione: è musica che mette di buon umore e che spinge in modo naturale il pubblico a prendersi bene per la performance anche se non conosce le canzoni.

Le tematiche del disco si dividono in alcuni macro-temi. Certi brani mostrano in modo evidente di essere nati durante il lockdown: è il caso di Land of Broken Dreams (“I never saw it coming / An avalanche of hardship”), così come della title track Mexico, una canzone escapista dove Hooper sogna di poter scappare (magari sulle spiagge assolate del Messico) per sfuggire alla situazione in corso ma anche ai propri problemi.

Il viaggio, azione per molti di noi comune e per una band anzi di routine (pensiamo ai lunghi mesi passati in tour) ma che in quel momento sembrava un miraggio impossibile, emerge del resto anche in Heavy (“It’s time to go / We’re driving East for Idaho / Over the mountains past Coeur d’Alene / Seattle lays West now about a day”) e in Devil and the Deep Blue Sea, dove il viaggio e il tour sono visti però anche nel loro aspetto più opprimente, con la lontananza da casa e dagli affetti, e i circoli viziosi fatti di negatività e di dipendenze nei quali si rischia di precipitare.

L’album prende una piega socio-politica verso la metà, dove Hooper riflette sulla situazione degli Stati Uniti post-elezioni 2016, lacerati dalla polarizzazione della società e della politica, dal contrasto sempre più profondo tra un modo di vedere il mondo e un altro, dall’esacerbazione della violenza non solo fisica ma anche verbale e su Internet. Il sogno americano, che si racconta morto fin dalla guerra persa in Vietnam, è certificato come “broken” (lo dice del resto il titolo della traccia d’apertura), e Hooper chiede al suo ipotetico ascoltatore “Man, do you know what you’re fighting for?” L’interlocutore al quale Hooper si rivolge disincantato ce lo immaginiamo come uno di quelli che a inizio 2021 hanno assaltato il Campidoglio di Washington. “Hey, you make believe that you’re really different from me / Whatever helps you sleep at night”, gli dice poi in Bad Blood, un brano in cui l’artista prova a ricordarci, anche se senza troppa convinzione, che siamo tutti parte della stessa specie e dovremmo probabilmente guardare meno a quello che ci rende diversi e più a quello che abbiamo in comune, per affrontare le sfide che il 21° secolo ci pone davanti, sfide che sono tutte a livello globale e non nazionale e locale, dal cambiamento climatico alle pandemie fino all’intelligenza artificiale.

Mexico è infine un album che parla d’amore. Un amore che a volte è difficile, tormentato e fa soffrire (“True love is hard”, si dice in Ghost), ma per cui vale sempre la pena di mettere il cuore e tutto sé stesso, esserci per l’altra persona anche quando questa sta affrontando un momento duro (questo il messaggio di By Your Side). Ma un amore che come in Forever e in Gold to Me può anche essere quel semplice sentimento che trasforma il nostro mondo in un posto che merita di essere vissuto: “I don’t need no roof above my head / ‘Cause baby, you’re my only home”.


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