Blink-182 – One More Time… / La recensione

di Umile Formosa
No, they don’t.
Il 18 giugno del 1999 allo Shoreline Amphitheatre di Mountain View, in California, i blink-182 diedero vita a uno degli show più amati dai fan della band: il trio è nel suo prime e in 36 scoppiettanti minuti suona 11 velocissime canzoni, scorrazzando e saltellando per tutto il palco, inscenando i consueti siparietti senza filtri e recitando le tipiche battutacce da bollino rosso. Tutto funziona, tutto è dannatamente perfetto: la lineup ha trovato da poco la sua forma definitiva con l’innesto di Travis Barker alla batteria, Enema of the State è fresco di pubblicazione; il mondo aveva appena conosciuto il videoclip cult del singolo What’s My Age Again?, la cui ripetuta esposizione, pari se non superiore a quella delle popstar e delle girl e boy band parodizzate nei video e coverizzate nei live, aveva fatto conoscere quei tre mattacchioni che corrono nudi persino alle casalinghe della provincia di Cosenza. È un successo commerciale esplosivo, che edulcora sempre più la già labile carica sovversiva della loro idea di punk in favore della componente più pop e festaiola, un punk dall’attitudine cazzona alla ricerca del ritornello perfetto.
L’elemento che però più degli altri emerge in maniera determinante, in quel concerto del 1999, e strappa un sorriso intriso di simpatiche e in qualche modo familiari malinconie, è un dettaglio particolare: sull’amplificatore di Tom campeggia lo slogan “Aliens Exist”; il collega Mark, cinque metri più in là, appiccica sulla sua strumentazione un gigantesco e perentorio “No, they don’t”. Cosa vogliate che sia se non un ennesimo bisticcio in scotch tra i due più famosi buontemponi del pop punk? Niente di cui preoccuparsi, anzi, c’è solo da ridere e da prepararsi a pogare quando annunciano Aliens Exist: “ehi, avete mai visto un alieno?” dice il chitarrista al rumorosissimo pubblico di giovani e il bassista in pronta risposta, indicando l’amplificatore dell’amico, esclama: “gli alieni esistono!” Tom, sentendosi preso in giro, ricambia con un “no, non esistono!” che scimmiotta il verso stampato in bianco su nero alle spalle di Mark; Travis allora rompe gli indugi e comincia a picchiare tom e timpano nel fill d’apertura: “Hey mom, there’s something in the backroom…”
Questo è tutto ciò di cui bisogna preoccuparsi ora. C’è però qualcosa di nascosto anche in questo scambio e non solo nella cameretta di DeLonge; qualcosa di estraneo, qualcosa che arriva da lontano e che nessun fan e nessun membro della band poteva prevedere né percepire in quel momento: sottili diversità caratteriali, la maturità in divenire e da costruire di due ragazzi ancora acerbi all’apice della notorietà, interessi e strade personali da coltivare, sensibilità su determinati temi.
Non è solo una band che deve la sua fama a qualche fortunato singolo di successo, alle battutacce del (e sul) cazzo e a quella voglia di non crescere mai. È una band che nel fisiologico percorso personale di crescita ha dovuto accettarsi vicina e unita, e comprendersi lontana e spaccata; ha imparato a convincersi che il tempo passa e che bisogna rimettersi in gioco da nuovi punti di partenza, che non esistono traguardi e che in fondo il mettersi reciprocamente in discussione è l’unica via per diventare fratelli e in un attimo estranei, ma solo per poter ritornare un’altra volta assieme in studio e sul palco. Troppo pop per essere punk, troppo punk per essere pop.
They came.
E così da estranei a fratelli, un’altra volta. Sono passati quasi 25 anni dai fasti di Enema of the State; in mezzo due reunion, tre side – ma neanche troppo – project, due album con Matt Skiba al posto di Tom DeLonge, purtroppo un incidente aereo e un linfoma al quarto stadio, ma adesso ci siamo! “They’re gonna come!”: they came. Sono tornati, Mark, Tom e Travis, e sembrano per la prima volta tre adulti: crescere non spaventa più. I vecchi nuovi blink-182 su One More Time… brillano di una luce equilibrata, più autentica e molto più assennata rispetto a quella che ci ha abbagliato nei precedenti lavori che hanno fatto “da grandi”: Neighborhoods, California e Nine.
È una luce dalla quale riemerge l’anima del trio californiano, alla quale hanno dato il nome di One More Time…. È un nuovo disco, è un patto, è un abbraccio fraterno, è un ritorno impresso in nero su sfondo bianco con un font tutto handmade, frutto del lavoro di restyling grafico operato da Eric Haze, che non ha risparmiato neanche lo storico smiley, ritornato a 5 frecce. Okay, non dovremmo giudicare un album dal numero di frecce su uno smiley, ma forse è davvero la volta buona e One More Time…, attraverso i suoi 17 brani, ci ricorda che se c’è l’amore (inclusa ovviamente la sua accezione masturbatoria, tanto cara al trio di Poway), le rughe sul viso di chi aspetta da dieci anni il ritorno di Tom DeLonge diventano graziose come fossette.
Coerentemente con quanto ha affermato Tom di recente (“È questo ciò che dovrebbe esprimere il vero punk rock: è un veicolo per le emozioni”) la traccia di apertura di One More Time… non poteva che essere un inno, il terzo capitolo di una trilogia le cui prime due gemme congiungono i capolavori Enema of the State – con Anthem in chiusura di album, ingiustamente e ingiustificatamente mai considerata dalla band – e Take Off Your Pants and Jacket, disco che ha in apertura la killer Anthem pt. II ritenuta, a differenza della sorella maggiore, un brano di punta dell’intera discografia. Anthem pt. III è dunque il nuovo episodio, e si incastra nella trilogia senza chiedere permesso: si fa posto da sé in modo prepotentemente sano e deciso, con l’apprezzabile contrasto tra chitarra clean e stacco di timpano e rullante che ci ricorda molto l’inno numero due. È una parente musicalmente più matura, ma meno efficace nel testo rispetto ai primi due episodi. Il blast beat che accompagna la strofa e la reiterazione di un testo che ha in “We”, “When” e “Like” le parole con cui Tom apre quasi ogni verso, invece, richiamano l’inno numero uno.
In un lampo siamo già catapultati sul dancefloor, diabolicamente travolti dagli “olé” spagnoleggianti e rickymartiniani (alla faccia dei Ramones) del singolo Dance with Me, degni sostituti dei non ancora pervenuti na na na (tranquilli, they’re gonna come too): un invito a ballare, un flirt, una voglia di dilatare le ore notturne e forse anche qualcos’altro, un tentativo di fare colpo – un po’ impacciato – tipico del pop punk di First Date, godibilissimo anche grazie al cocktail spezza-routine che sorseggiamo prima di scatenarci su questa ritrovata intesa vincente.
Sulla stessa linea – in un’atmosfera tutta handclapping e synth poppeggianti da cameretta anni ’80 – arriva Fell in Love, in cui il DeLonge conquistador da pista da ballo cede il posto al suo lato più romantico e malinconico, aiutato dal melodico pre-ritornello di un Mark impegnato nella strofa a coverizzare la sempreverde linea di basso di Close to Me del suo maestro Robert Smith. Nel ritornello Tom ripercorre la storia di un innamoramento, che in fondo è la storia di tutti quei ragazzi cresciuti con MTV e quegli improponibili titoli lanciati su PlayStation 2, con qualche problemino a scuola, un po’ timidi ma dalla battuta pronta, con voglia infinita di fare festa, volere bene agli amici e fare sesso; ed eccoli i na na na – li abbiamo aspettati (o forse no?) per 7 lunghissimi minuti e 43 secondi – a chiudere ritornelli e brano.
Dopo aver rivissuto quella volta che ci siamo innamorati, ci tocca riaprire un altro cassetto della memoria e questa volta si fa sul serio, nella prima inversione a U del disco: arriva Terrified. L’approccio marching snare drum di Travis, la cantilenante strofa nasale di Tom, unita all’esplosione emo del ritornello che si appoggia sulla distorsione spigolosa e sporca della Fender Starcaster, urlano a gran voce un solo nome, che non può sfuggirci né sorprenderci: Box Car Racer. L’intenzione della band è dichiarata e inequivocabile: Terrified è la canzone dei Box Car Racer riutilizzata per i blink-182 (e nella strofa richiama Watch the World); è un segnale importante, perché nella maturazione e nel riabbraccio dei tre veri blink, ciò che un tempo avrebbe generato contrasti oggi non rappresenta più un limite, bensì una fonte di ispirazione.
Anche l’ordine della tracklist sembra scelto con cura e maturità: la title track One More Time arriva esattamente in questo momento, quasi a corroborare e rinsaldare l’idea che il vero grande cambiamento dei blink-182 è stato rimanere uguali a loro stessi e imparare ad accettarsi esattamente per quello che sono. “Well, I guess this is growing up!”, è proprio il caso di dirlo: crescere, a volte, è questione di un istante.
Tutti ricorderemo il lancio simultaneo di More Than You Know, passata all’ombra del singolo omonimo dell’album ma non per questo meno accattivante. Tutt’altro: questa sua genesi misteriosa, velata, imprevista, conserva e tutela l’atmosfera della canzone, che è forse la più completa e compiuta dell’album, dove testo e musica si sposano alla perfezione nel mix di vigore punk rock di strofa e ritornello e raffinatezza del piano dell’intro e del bridge. Ci si sente, questa è l’impressione, dentro il level up definitivo di brani già all’epoca intensi e complessi quali Violence e Stockholm Syndrome.
Scivolati via i 23 secondi della joke song Turn This Off si arriva a When We Were Young, titolo familiare che abbiamo conosciuto in tantissime altre salse; è un brano che fa riassaporare ai fan quella inclinazione di DeLonge, mai tanto amata in realtà, da osservatore e narratore verso un mondo che si è mosso ed è cambiato; qui si parla di una ragazza che non c’è più, ma il criterio narrativo è stato già spremuto fino all’osso, ovvero l’ottica di chi racconta di essere invecchiato. Ecco allora rispuntare Edging (ammettiamolo, nessuno l’ha più riascoltata una volta svanito l’hype dell’ottobre di un anno fa), che sembra già appartenere a qualcosa di superato.
A seguire You Don’t Know What You’ve Got e Blink Wave. La prima nasce da un’idea di Travis, il quale voleva una canzone che parlasse di un’esperienza di vita realmente vissuta dai blink-182; Mark ha poi scritto le strofe piene di riferimenti espliciti agli stati d’animo e fisici indotti dal linfoma. La seconda invece è quasi un out of context: musicalmente è molto vicina ad alcune sonorità degli ultimi The Cure, mentre per quanto riguarda il ritornello, nel saliscendi del sintetizzatore, riaffiorano le gradevoli idee dei The Killers di Day & Age; il testo ha il suo punto di forza nell’ambiguità della frase “salvami come l’ultima volta / i migliori dieci giorni della mia vita”, che ci indurrebbe a immaginare un doppio destinatario o un destinatario sovrapposto: persona e medicina, in un rapporto di dipendenza.
I successivi 2 minuti e 19 secondi di Bad News, velocissimi e molto piacevoli, ci ricordano che per dimenticare qualcuno che ci ha fatto soffrire a volte basta poco: mettere sù gli auricolari, imbracciare lo skate e fiondarsi nel parco; qualche ollie e qualche grind, mentre tre vecchi amici cresciutelli stanno spaccando tutto a velocità supersonica, possono risolvere ogni cosa.
Tra l’interludio Hurt e l’altra breve joke song Fuck Face arriva Turpentine, insignita da Mark come la Feeling This di One More Time…. In effetti la chimica tra i due musicisti è complementare anche questa volta, proprio come nel singolo del self-titled, ma la lettura che vogliamo dare all’uscita di Mark è che in qualche modo la canzone vorrebbe rendere l’atmosfera generale del disco.
Ultimo brano prima del lento è Other Side, un energico showdown di stampo 100% hoppusiano, in cui il bassista omaggia il suo amico e bass-tech Robert Noise, il quale, prima di sparire tragicamente, aveva lanciato la compagnia di caffè a cui Mark allude nel ritornello del brano. Con la ballata sentimentale Childhood i blink-182 scelgono i toni giusti per concludere One More Time…: il tempo è passato, ma i più coraggiosi restano fino all’ultima nota e gli anni di troppo scivolano via come un abito troppo pesante e troppo stretto.
Yes, they do!
Nei blink-182 abbiamo trovato grande onestà intellettuale e piena maturità, qualità che i fan meritavano, forse prima ancora e più di un nuovo album: basta ripicche, basta moti d’orgoglio, basta rancori! La prova definitiva la troviamo nelle parole di Mark (“ll mio vecchio ego avrebbe rifiutato la canzone dei Box Car Racer senza neanche pensarci, ma il punto di questo album è lasciarsi alle spalle tutte quelle stronzate e concentrarsi esclusivamente sulla musica”) e a confermare questa posizione ci pensa la performance live di Tom in Bored to Death, canzone figlia della parentesi Matt Skiba: a dir poco impeccabile, com’è stato impeccabile tutto il tour mondiale che ha rilanciato il trio di San Diego.
A cominciare dalla data di Bologna, dove abbiamo avuto l’onore e il privilegio di ascoltare per la prima volta dal vivo le nuove canzoni: in una cornice meravigliosa, su un palco immenso, illuminato da scenografie incredibili, diapositive, giochi di luci e di laser, gonfiabili e piattaforme mobili. “Tom was right” recitava una fittizia prima pagina di giornale creata ad arte per la scenografia di Aliens Exist ed è così che ritorna il sorriso intriso di familiare malinconia: gli alieni esistono davvero e riavvicinandosi hanno dato vita a qualcosa di incredibilmente umano. Yes, they do!
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