Le paure e le verità degli Atlante / Intervista

di Simone De Lorenzi
Gli Atlante sono un power trio di Torino che si sta facendo notare nella scena alternative rock. La band è formata da Claudio Lo Russo (voce e chitarra), Andrea Abbrancati (basso) e Stefano Prezzi (batteria). Il secondo album degli Atlante, uscito lo scorso novembre per Pan Music, si intitola paure verità e segna il passaggio a uno stile influenzato dall’elettronica.
Abbiamo intervistato gli Atlante in occasione del loro concerto al Cortile Café di Bologna, lo scorso 24 marzo.
Nel vostro ultimo album, paure/verità, il rock viene mescolato all’elettronica. Avete avuto paura della reazione dei fan per questo cambio di sound? E loro come l’hanno accolto?
Claudio: Non stiamo parlando di gravi rischi, nel senso che il livello a cui siamo ci permette di scommettere molto. Per noi è tutto molto libero; non ci facciamo assolutamente quei problemi. È stata un po’ una scommessa, però effettivamente rimanere sullo stesso filone non sarebbe stato stimolante; perché se tu non dai qualcosa di nuovo, un po’ di ricambio, finisce l’entusiasmo sia per chi suona sia per chi ascolta. Quindi in realtà paura niente; un po’ di titubanza, dire “chissà come va”, quella sì.
Andrea: Ascoltando alcuni brani composti nello stesso periodo di quelli che sono usciti abbiamo notato che effettivamente sembrano quasi un B-side del primo disco; si sentiva che erano proprio distanti da quello che ascoltiamo adesso, da quello che facciamo, da quello che siamo diventati, da quello che ci piace suonare, da quello che più ci rappresenta. Quindi è stato giusto così, alla fine. E il riscontro è stato positivo.
Contate di proseguire su queste sonorità o è stata una sperimentazione che limitate al secondo disco?
C: Sarebbe figo svilupparle, perché alla fine su questo disco non si è abbandonato completamente quello che c’era prima. È stato semplicemente un limitare e aggiungere, e ora bisogna fare la stessa cosa: scavare, tenere il buono, quello che ci piace ed è efficace, e aggiungere qualcosa che non si sa ancora. Adesso stiamo lavorando su dei pezzi nuovi, però li abbiamo un attimo messi in pausa perché siamo tutti presi da mille altri lavori: per ora siamo concentrati sul suonare un po’ di date, in primavera e in estate; dopo ci metteremo con la testa a dire “e ora che cazzo si fa?”
L’inizio è la mia fine è ispirata al libro di Tiziano Terzani La fine è il mio inizio. Ci sono altre ispirazioni di matrice letteraria nei vostri testi?
C: Così tanto esplicite no. Magari molte frasi sono ri-manipolazioni di robe che arrivano dai libri, anche decontestualizzate, riassemblate in maniera diversa. Se si parla di scrivere i testi è inevitabile che se leggi qualcosa – ancora di più che ascoltare musica – ti rimangano impresse delle frasi, che sottolinei e poi cerchi di far star dentro ad altre cose, ovviamente senza copiare ma prendendo e poi andando appunto a decontestualizzare.
A livello di contenuti, è facile rivedere nei temi trattati un’influenza della pandemia, ma magari sono suggestioni…
A: Questa secondo me è più suggestione, perché quasi tutti i pezzi paradossalmente sono stati scritti prima della pandemia. Ovviamente ci abbiamo lavorato anche durante e dopo e quindi un minimo sicuramente ha influenzato – dei nove che sono usciti, due o tre sono stati scritti durante o post. Abbiamo costruito il concept del disco intorno alla paura di come sarebbe potuto andare il mondo, in generale; allo stesso tempo abbiamo avuto la certezza, la verità, che continuare a suonare e a comporre la nostra musica ci permette di andare avanti. Abbiamo cercato di non demordere.
C: Noi la pandemia l’abbiamo usata come chiave di volta; è stata una scusa per dire “insistiamo, manteniamo caldo il braciere, così quando poi finirà – perché dovrà finire – abbiamo un filo conduttore che ci ha fatto sopravvivere mentalmente a tutta ‘sta roba”. In realtà parecchi nostri amici – anche molto bravi, ma che magari non avevano la costanza, il tempo, le energie che ci mettiamo noi – hanno lasciato, ma è normale che una roba del genere ti tagli completamente le gambe. Ha fatto una selezione enorme, almeno a Torino… molti altri invece sono nati, soprattutto quelli più giovani.
Ho visto molti progetti nati durante la pandemia. Possiamo dire che nel brutto qualcosa di buono è venuto a galla.
A: Sì, perché ti scatena delle emozioni che in qualche maniera vuoi buttare fuori.
C: Sì, ti devi esprimere in qualche maniera. Però ho notato che è cambiata moltissimo l’attitudine: anche se le cose stanno riprendendo, è come se ci fosse, a livello musicale, un pre-covid e un post-covid. Sono arrivati i nuovi giovanissimi e ci sono stati questi due anni di pausa da cui poi è ripartito tutto a bomba, però con dinamiche diverse, con generi musicali e attitudini diverse, soprattutto a livello di live. Chi c’era da prima, come noi, deve riuscire ad adattarsi e capire come gira il tutto per continuare a mantenere una scena senza che tutto venga sostituito da nuove cose. Però ovviamente in due anni di cose ne cambiano; che si suoni o no, di ricambio ce n’è. Poi con lo streaming le persone sono rimaste meno legate all’impatto sonoro live: ti senti quella roba che è fatta apposta per andare sullo stereo e ti fotte il cervello; l’istinto live chitarroso, quella botta che provano a dare gruppi come noi, è stato messo in secondo piano per un po’ di tempo.
Mi fate qualche nome di artisti emergenti da tenere d’occhio?
A: Io sono andato sotto col disco di Marco Fracasia.
C: Sì, Marco Fracasia ha fatto un bell’EP con 42 Records. Di Torino ci sono i Baobab! e Narratore Urbano. Abbiamo una fratellanza con gli Yosh Whale, che sono un gruppo di Salerno, anche loro appena usciti col disco nuovo.
A: Comunque siamo legati alla scena rock italiana: dovevamo suonare con i Cara Calma a Brescia, poi non siamo più riusciti per motivi lavorativi. Siamo legati ai Balto. Mi è piaciuto un sacco l’ultimo pezzo de I Botanici.
C: Son fighi. Anche i Gomma: non hanno venduto proprio mezzo capello di quello che erano.
A: I Quercia anche. Io ho ascoltato dal vivo gli Elephant Brain, son bravi. I Post Nebbia son fighi.
C: Anche i Tenue.
In Arcadia avete collaborato con Riccardo Taffelli dei Cara Calma. Com’è stato lavorare con lui?
A: Purtroppo abbiamo lavorato a distanza, durante il covid. Volevamo dare al pezzo una vita diversa rispetto agli altri, nel senso che lo sentivamo leggermente più distante, come sonorità, da alcuni dei brani del disco; erano anni che parlavamo di dover fare qualcosa insieme e ci sembrava, per il mood, che fosse quello più vicino a quello che fanno anche loro.
Dopo l’EP e l’album di esordio è il terzo lavoro che pubblicate con Pan Music, come vi state trovando?
C: Siamo super soddisfatti del lavoro fatto fin qua, compreso questo disco; ci abbiamo lavorato insieme anche dal punto di vista della produzione.
A: Fabrizio [Pan] ci ha sempre creduto.
C: Comunque, essendo un’etichetta di Torino, in questi cinque anni quello che potevamo fare l’abbiam fatto, a livello di spinta e di crescita, quindi ora ci stiamo guardando un po’ intorno per capire anche con i prossimi lavori – che non sappiamo ancora quando saranno – che cosa ci può essere fuori da Torino, altre realtà. Poi con Fabri ci siamo sempre trovati bene, però dopo un po’, quando noti che si stabilizza il processo creativo, è arrivato il momento di provare altre cose, senza nulla togliere al rapporto che abbiamo con lui.
Vi sentite troppo legati a Torino?
C: Sì, anche per quello. A Torino abbiamo sempre fatto il nostro dignitosamente, è una città che musicalmente funziona molto bene, c’è un microsistema parecchio attivo – ho scoperto che rispetto ad altre città ci sono pure tanti locali, per quanto noi ci lamentiamo che ce ne siano pochi –, però è una città molto autoreferenziale: le cose che ci son dentro fanno fatica a uscire. Non è che ci sia una scena torinese in giro per l’Italia: magari ci sono i big, ci sono gli Eugenio in Via Di Gioia, Levante, i Subsonica o Willie Peyote, i soliti. E quindi ci sta anche mettere il naso fuori dalla provincia torinese per capire cosa c’è in giro e provare a colonizzare anche altri posti, senza andarci a suonare e basta, ma creando dei rapporti: far capire che l’Italia è un’unica grande rete, non rimanere tra di noi a Torino.
A: Che è anche il discorso che, a Torino, stiamo facendo con le diverse realtà musicali che ci sono: stiamo cercando anche di contaminare.
C: Sì, ce ne sono tante, però non è una rete. Infatti il prossimo obiettivo di Torino secondo me è quello di riuscire a fare rete fra tutti: ci sono tanti ambienti che non comunicano per niente tra di loro. Il che è un peccato, perché alla fine si parla di musica; è vero che bisogna contestualizzare, però perché non creare delle intersezioni che poi sono quelle che portano all’innovazione?
In Bivio dite “Ma quel che fotte è ciò che scegli / Davanti al bivio, tra paure e verità”. Cosa scegliete voi davanti al bivio? Si può davvero prendere una scelta?
C: Quella frase in particolare si riflette sulla fine di un rapporto, quando c’è la disintegrazione della rete intima fra due persone e le scelte sono due: o continuo nella paura di prendere una decisione oppure accetto la verità e vado per la direzione opposta. Quindi quello che ti fotte – e quello che ti salva anche un po’ – è prendere una decisione una volta arrivato a questo bivio, dove dici: “che cazzo devo fare?” Ci sono sempre due strade nella vita, quella in cui dici “basta, ora lo faccio”, o quella dove rimani nella staticità di quello che fai: che è una sicurezza, ma dall’altra parte c’è una perdita di qualcosa. E quindi è quello che fotte ma allo stesso tempo anche quello che ti premia.
E alla fine una scelta va presa.
C: Bisogna scegliere. Puoi scegliere anche di non scegliere, però è comunque una scelta della prima opzione [la paura]. Però la vita porta a cambiamenti che in bene o in male ti danno qualcosa di nuovo, quindi conviene sempre scegliere.
Gli Atlante saranno nuovamente dal vivo nelle prossime settimane per presentare Paure Verità:
12 aprile @ Arci Bellezza, Milano
24 aprile @ Cap10100, Torino
6 maggio @ Diavolo Rosso, Asti
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