Naska – Rebel (Deluxe) / La recensione

Sono venuto a conoscenza di Naska per via di un dibattito online sul prezzo spropositato dei biglietti per i suoi concerti; ho scoperto poi che quella era la punta di una polemica che coinvolge non solo la sua musica. Diego Caterbetti, in arte Naska, è uno dei personaggi più controversi del recente panorama musicale: nato rapper – ma ancora prima twitcher –, con il suo album d’esordio Rebel ha provocato reazioni contrastanti da varie parti e, (auto)celebrato(si) come colui che ha riportato il pop punk in Italia, ha scatenato non poche divisioni all’interno della scena.
Rebel è un disco prodotto molto bene e parte della sua fortuna è meritata. In breve, ripropone sound e immaginario mutuati dal pop punk classico, quello d’oltreoceano degli anni 2000, mescolati ad elementi del recente revival emo/punk, digeribile anche da un pubblico nostrano e neofita del genere. Le sonorità ricreate sono molto buone, peccato che buona parte delle tracce sia costituita da rip-off di successi del passato (raccattando a vario titolo da band come Sum 41, Lustra, Hoobastank, Nirvana) adattati alla gen Z italiana, a partire da certi testi davvero banali e superficiali.
Come prevedibile, i due brani inediti di questa edizione deluxe si dividono secondo la formula già collaudata in precedenza: uno è più trasgressivo, l’altro più malinconico, sia a livello musicale che nelle tematiche. Schiena dritta esemplifica bene il progetto portato avanti da Naska: un riff ripreso da una vecchia canzone della scena alternative – questa volta risaliamo al 2009 di A Party Song (The Walk of Shame) degli All Time Low –, la menzione di un artista della suddetta scena (non di nicchia, bensì rigorosamente mainstream, come in questo caso i Green Day), l’esaltazione del proprio status di menefreghista sciupafemmine, ubriaco e drogato (“nel paradiso non vanno quelli come me / fra mille scelte giuste scelgo le sbagliate”); tralasciando questi aspetti, nel complesso il pezzo è insipido e non raggiunge i migliori esiti di Rebel come Mamma non mi parla e Punkabbestia.
Traiettoria più fortunata segue O mi uccidi: sa molto di Finley rivisitati in chiave emo rap per confezionare una canzone d’amore malinconica, capace di una sensibilità insieme delicata e struggente. Naska regala poi due reinterpretazioni acustiche: con Horror va sul sicuro, perché la vena sentimentale del pezzo ben si presta a una versione unplugged; non è stravagante, ma va incontro alle aspettative e proprio per questo centra il segno. La rendition di Vaffanculo per sempre, al contrario, trova il suo punto di forza nella singolarità della trasposizione, molto minimale; non incide quanto l’originale ma si tratta di un tentativo apprezzabile.
La copertina della versione deluxe riprende quella originaria, in cui Naska era mostrato come un college boy ritratto nel classico annuario di fine anno, ma a questo giro lo scolaretto si è “ribellato”: la divisa fuori posto, la cravatta in testa a mo’ di bandana, un reggiseno tra i denti e un altro sulla spalla, lo stampo di un rossetto sulla guancia. Credo basti questo quadretto per far capire quanto la ribellione dell’artista marchigiano debba andare intesa nel senso più adolescenziale e cazzaro possibile. Di fronte al giustificabile fastidio verso gli atteggiamenti del personaggio-Naska, che punta essenzialmente a fare casino – come dimostra anche dal vivo –, vale forse la pena ricordarsi che pop punk significa soprattutto divertimento.
VOTO: 3/5
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