“L’uomo è alienato quando immerso nelle strutture tecnico-sociali che ha costruito” / Intervista a Millepiani

Millepiani

Millepiani è una delle penne più interessanti della nuova canzone d’autore: piglio che sta a metà tra la rockstar e l’asceta, il cantautore toscano ha già pubblicato un disco da solista e ora si avvia a inaugurare una nuova fase del percorso con Krakatoa, singolo dalle reminiscenze battiatesche ma capace di colorarsi in modo diverso grazie a una per niente scontata chiave di lettura new wave. Insomma, materiale sufficiente per convincerci a fare qualche domanda ad Alessandro!

Alessandro, bentrovato su Booklet Magazine! Presentati ai nostri lettori, racconta chi sei a chi ancora non ti conosce abbastanza!

Ciao a tutti, piacere. Chiamatemi pure Millepiani. Scrivo canzoni e non riesco a smettere. Ho provato a rivolgermi a fior fior di specialisti ma non ha funzionato. Fin da bambino ho avuto sempre questo problema: a casa non avevo la TV. Mi spiego meglio: avevo la TV, anzi ne avevamo pure troppe disseminate per la casa, ma dove abitavo io le antenne non prendevano, meno che un ripetitore su Alpha Centauri. Mio padre aveva sparso televisori in ogni angolo della casa, sperando irrazionalmente che qualcuna fosse miracolata e prendesse. Ma niente da fare. Quando andai alle elementari vidi che tutti i bambini giocavano alle storie dei cartoni animati che vedevano alla TV: io per riuscire a stare al passo e giocare con loro dovevo improvvisare; immaginavo nella mia testa quelle trame, quei personaggi, quei mostri cogliendo dettagli da loro e mi inventavo storie di sana pianta da proporgli, anche con personaggi inventati e pianeti immaginari. Per compensare alla mancanza dei cartoni animati i miei mi comprarono un pianoforte e mi mandarono alla scuola comunale di musica. Svariati anni dopo le due cose si fusero insieme: scrivere storie e scrivere musica. Da allora non ho più smesso.

Da dove partiresti, per raccontare l’esperienza di Millepiani? Anzi, già che ci sei: ci racconti che origine ha il tuo nome d’arte?

“Mille piani” è la traduzione italiana di Mille plateaux, uno dei più importanti libri di filosofia onirica e visionaria del secolo scorso, scritto a quattro mani da Gilles Deleuze e Felix Guattari. Uno dei miei libri preferiti. Però Millepiani è anche una marca di ascensori: una fabbrica di macchine che servono a trasportarti a diversi piani di un palazzo. Mi piaceva questo concetto: che una canzone, o un testo, possano avere diversi livelli di lettura e comprensione, nei quali puoi scendere o salire a seconda di come la vuoi approcciare.

Abbiamo letto che hai cominciato l’esperienza solista dopo una frequentazione assidua del mondo delle rock band: sei leader e autore, tra l’altro, dei Plumbago. Esistono delle differenze tra l’Alessandro che scrive per band o per sé stesso? In cosa si differenziano secondo te le due esperienze di scrittura?

Per la scrittura vera e propria non esistono differenze sostanziali; per scrittura intendo l’ideazione, l’ispirazione, la melodia, il testo. Mentre per quanto riguarda la scrittura degli arrangiamenti e delle partiture il processo è molto diverso. Con i Plumbago mi piace essere parte di una squadra dove ogni elemento è fondamentale e ha lo stesso peso nel progetto. Solitamente propongo un pezzo in fase embrionale, chitarra e voce, e poi insieme lavoriamo per comporre l’arrangiamento e il suono, e ognuno porta le proprie competenze. Marco, per esempio, chitarrista e cofondatore del gruppo, scrive arrangiamenti, riff, assoli e si occupa anche della produzione vera e propria, quindi ha il mio stesso peso creativo nella creazione dei pezzi. E tutto è pensato per la dimensione della band, ovvero il live.

Millepiani invece ha libertà totale: testi, musica, arrangiamenti, ogni aspetto della canzone è mia responsabilità e ricade su di me. Quando il pezzo è scritto e lavoro alla preproduzione non mi preoccupo di come possa essere suonata dal vivo, sperimento suoni, stratificazioni, atmosfere, in libertà assoluta. Ho imparato però anche a fidarmi molto dei produttori e dei musicisti che ho scelto per Millepiani. È una squadra eccezionale quella de La Clinica Dischi e molte volte ho capito che è importante ascoltarli e cambiare delle cose per migliorare il pezzo. Mi hanno insegnato tantissimo, soprattutto mi hanno insegnato i miei limiti, i miei punti di debolezza e di forza, e questo è fondamentale.

Eclissi e albedo aveva presentato al mondo le tue canzoni e aperto uno spiraglio mica da poco sulla portata quasi “escatologica” della tua ricerca musicale. Anche il tuo ultimo singolo, a suo modo, sembra ripercorrere questa strada: perché proprio “Krakatoa”?

Krakatoa è il famoso vulcano che, esploso nell’800, scosse tutto il pianeta. Fu un disastro di proporzioni planetarie. Per questa canzone cercavo proprio questo: qualcosa che avesse un potere distruttivo su quella scala, che rappresentasse la Natura nella sua potenza primordiale e imprevedibile. Il pezzo è nato proprio dal titolo. È un brano che attraversa ere geologiche, vulcani, catene montuose, deserti, continenti. Ma lo fa dall’interno dell’essere umano, dal suo essere un tutt’uno con la natura dalla quale proviene.

La canzone si cala nella natura primordiale vista e contemplata dall’essere umano contemporaneo, informatico, iperconnesso. Il concetto di anima individuale e del “mana”, ovvero dell’essere umano che è un tutt’uno con la natura, nella sua evoluzione, nella sua sfera ancestrale. L’anima panteistica della Terra, vista come organismo collettivo, un macroinsieme di essere viventi e materia in divenire incessante e infinito. L’uomo contemporaneo è alienato quando è immerso nelle strutture tecnico-sociali che ha costruito, mentre quando si trova da solo calato nella natura ritrova sé stesso, la sua essenza più intima.

Nel brano fai riferimento alla necessità di una ricerca personale che possa portare l’individuo a ritrovare le proprie più ataviche e antiche origini. Che momento era quello in cui hai scritto questa canzone?

Premetto che ho un metodo di scrittura dei pezzi molto lento; alcuni pezzi li lavoro addirittura per anni, e restano in un calderone di centinaia di canzoni in progress a cui lavoro contemporaneamente. Per la genesi di Krakatoa ricordo che era estate e c’era una canicola infernale in casa, stavo suonando alla chitarra e continuava a venirmi questa progressione di accordi e poi il ponte, e tutto mi ispirava un’atmosfera e un’ambientazione ancestrale e atavica, in qualche modo primitiva. Registrai la chitarra e ci provai delle percussioni tribali e rimasi folgorato: mi immaginai in una foresta pluviale, un uomo agli albori, primitivo, senza storia né passato. Solo al cospetto della Natura. Un tutt’uno con la Natura. Con le piante, la terra, gli animali; e lontano sullo sfondo, maestoso, un vulcano che si ergeva eruttando una colonna immensa di energia e potenza. E la mia mente ha iniziato a viaggiare tra vulcani, ghiacciai, montagne, mari, fiumi, come se tutta quella potenza e bellezza infinita fossero dentro di me. E ho pensato che quello era proprio un bel modo per ritrovare la propria essenza vitale. Così ho iniziato a scrivere i versi di Krakatoa.

È interessante anche il videoclip del brano, ci racconti come hai lavorato alla sua realizzazione?

Il video si muove tra due dimensioni spazio-temporali ben definite. L’uomo solo nelle strutture che ha costruito e che lo rendono alienato e perso, e l’uomo che è soggetto puro, un occhio che contempla, che diventa un tutt’uno con la Natura. Per la prima abbiamo scelto come set la zona industriale, e abbiamo girato di domenica pomeriggio, quando era deserta e tutte le attività ferme, per dare un senso di alienazione assoluto. Nel ritornello ho cercato di raccontare il viaggio interno, mentale, attraverso territori immensi e non antropizzati, con immagini aeree e voli di droni in FPV. Quindi una dimensione gigantesca e una a grandezza umana. Ma le due cose non erano ancora collegate a dovere, quindi ho trovato due soluzioni che legassero i due set e li facessero diventare un’unica esperienza soggettiva: la prima è stata inserire il salto verso l’alto che mi “proietta” sulle nuvole e poi nel volo aereo; la seconda, per rendere il tutto più “interiore” e “mentale”, inserire dei macro del mio occhio che si apre e si chiude durante le panoramiche aeree.

Esiste secondo te nell’uomo qualcosa di “atavico”, di originario, che non può essere ulteriormente “ridotto”? Insomma, un nucleo solido e durissimo come il diamante che non ammette di essere messo in “discussione”?

Ne sono assolutamente certo. Questo nucleo è dentro di noi, indipendentemente dalla nostra evoluzione, cambiamenti, decisioni, esperienze. È come un treno con dei vagoni che viaggia nei binari della vita. A ogni stazione il treno si riempie di passeggeri: accadimenti, gioie, dolori, esperienze, ideali, convinzioni. A ogni fermata c’è gente che sale, che scende, che resta. Alla fine del viaggio poi il treno si svuoterà, tutti saranno andati via, però il treno, quello non sarà cambiato, sarà sempre lo stesso, per sempre.

Salutiamoci, ma prima rivelaci quando potremo finalmente riascoltare altre tue canzoni.

Grazie, ragazzi, è stato un grande piacere. Il prossimo disco uscirà entro il 2023 ma non c’è ancora una data precisa. Sarà incentrato sul pianeta Terra e i suoi abitanti. Sulla sua fragilità, sull’equilibrio sottile che viene drasticamente ferito dall’impatto della volontà di potenza umana. Un disco che attraversa nei suoi testi ere geologiche, vulcani, catene montuose, deserti, continenti.


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