Gli album del mese: Let’s Eat Grandma, Silverstein, Ministri & more

Let’s Eat Grandma – Two Ribbons
(Transgressive Records, 29 aprile 2022)
I synth che hanno le Let’s Eat Grandma ce li hanno davvero in pochi nell’attuale panorama musicale. Ad alta frequenza e acuti, estremamente sognanti, ma di quei sogni in cui la visuale è costantemente mossa e a scatti, un po’ come nel video del singolo Hall of Mirrors. Il duo inglese propone un disco legato al tema della nostalgia per come erano le cose nell’infanzia e nell’adolescenza, sulla scia di due eventi importanti: da una parte l’affievolimento del rapporto di amicizia fra le due componenti del gruppo, Jenny Hollingworth e Rosa Walton (un tema trattato in modo quasi sbalorditivamente sincero considerando che le due sono bandmate oltre che amiche), e dall’altra la morte del ragazzo di Hollingworth a soli 22 anni per un tumore alle ossa. La carica è principalmente nella prima metà del disco, sia con i brani migliori che con quelli più ritmati; la seconda parte prende invece una piega più acustica, abbandonando quasi interamente i synth sincopati in favore della chitarra, e anche il disco fatica un po’ più a ritrovare la propria intensità. Two Ribbons resta comunque un album di ottima fattura, in cui le Let’s Eat Grandma confermano di fare un genere tutto proprio e particolare che non trova confronti immediati nel resto dell’offerta contemporanea.
Silverstein – Misery Made Me
(UNFD, 6 maggio 2022)
Non si sa bene come facciano e dove trovino le energie, ma i Silverstein continuano anche a quarant’anni suonati a macinare dischi e kilometri in tour manco fossero dei ragazzini. Misery Made Me è l’album con cui il quintetto canadese taglia l’invidiabile traguardo della decima uscita discografica ufficiale, peraltro con un solo rilevante cambio di formazione in vent’anni di storia. Arriva a due anni da A Beautiful Place to Drown, disco piuttosto trascurabile con cui la band aveva provato ad ampliare il proprio repertorio sonoro aggiungendo dell’elettronica al post-hardcore di base. Vista la tiepida risposta a quell’album, la band torna sui propri passi, bandisce quasi tutti i synth e le sperimentazioni e tira dritta al punto usando lo strumento che sa sfruttare al meglio, ovvero le chitarre. Se da un lato possiamo salutare con favore il ritorno ai brani carichi e diretti, dall’altro la band esagera forse un po’ troppo in questa mancanza di ricerca artistica: buona parte dei brani di Misery Made Me appare molto formulaica e prevedibile, simile a quanto i Silverstein ci hanno già fatto ascoltare sui nove dischi precedenti; una sorta di genericizzazione che non aiuta a trovare nuovi spunti e nuovo vigore, specialmente per chi ha già consumato dischi come This Is How the Wind Shifts, A Shipwreck in the Sand o Discovering the Waterfront e non si approccia per la prima volta alla band. Compaiono, è vero, alcune delle canzoni più heavy dell’intera discografia della band (vedi Die Alone) o pezzi alla Beartooth come Our Song che alzano il livello e l’interesse, ma tra i riff metalcore di Ultraviolet e Slow Motion e il sound patinato di Cold Blood o Live Like This, non sembra che la band abbia tirato fuori un disco destinato a rimanere negli annali.
Ministri – Giuramenti
(Woodworm, 6 maggio 2022)
L’anno scorso i Ministri avevano pubblicato l’EP Cronaca nera e musica leggera: quattro tracce aggressive che avevano gasato i fan al punto giusto. I quali fan probabilmente non si aspettavano, dal settimo album in studio Giuramenti, un disco così pacato (tanto più dopo che il trio milanese ha svelato che i brani sono stati composti nella stessa sessione di registrazione dell’EP). Solamente un paio di canzoni infatti sono altrettanto impetuose: Documentari e Numeri, che sono anche le uniche con un contenuto di denuncia sociale; meno spinti ma comunque potenti altri pezzi che indagano una dimensione di amarezza e disillusione verso la vita (Scatolette, Esploratori, Ci eravamo detti). Lontana dalla foga degli esordi, Domani parti obbliga a una pausa davvero non necessaria all’economia del disco, mentre Arcipelaghi e Comete contribuiscono a un finale troppo poco movimentato. L’unico pezzo lento degno di nota è Vipere, che rimanda (pur senza eguagliare in qualità) alle vibe delicate e incisive di Una palude. Il tono generale percorre la strada dell’introspezione, in una maniera senza dubbio genuina; dopo il recente EP forse ci si sarebbe aspettato un album più rabbioso, ma i Ministri non sono più i giovincelli di una volta e anche per loro è arrivato il momento di fare i conti con sé stessi. [Simone De Lorenzi]
Bowling for Soup – Pop Drunk Snot Bread
(Brando/Que-So Records, 22 aprile 2022)
I Bowling for Soup tornano sulle scene con Pop Drunk Snot Bread, sei anni dopo Drunk Dynasty, ripagando dell’attesa con ben 15 tracce; come i Simple Plan – altra band che non pubblicava un album dal 2016 – restituiscono il pop punk alle sue origini, sordi alle contaminazioni del più recente revival. Il gruppo, che si sta avvicinando al trentennale, sa bene che il tempo è passato e nelle canzoni riflette su com’è cambiato nel tempo e sulla necessità di rimanere fedele a sé stesso; questa dimensione nostalgica in un paio di brani sfrutta anche il lato acustico, virando su tonalità più delicate. Non sembra essere scomparsa l’attitudine goliardica che da sempre li contraddistingue (basta dare un’occhiata a certi titoli, che includono due intermezzi pseudo-pubblicitari): oltre al generale clima giocoso si possono segnalare brevi interpolazioni di parlato in mezzo alle canzoni che fanno sorridere. Ma sono capaci di lasciare spazio a temi più seri come la salute mentale o perfino affrontare una dimensione più politica, di denuncia. In definitiva il quartetto statunitense non ha perso lo smalto: il sound è perfettamente aderente al pop punk degli anni Duemila, con uno stile che a tratti ricorda i New Found Glory; sonorità che – questo va loro riconosciuto – non hanno mai abbandonato. [Simone De Lorenzi]
Honeyglaze – Honeyglaze
(Speedy Wunderground, 29 aprile 2022)
Ennesima band sfornata dall’incredibile bacino di talenti britannico, gli Honeyglaze arrivano all’importantissimo passo del disco d’esordio con questo album self-titled che era stato anticipato da un singolo, Shadows, parecchio apprezzato su queste pagine. Honeyglaze è un disco indie rock molto leggero e soffuso, quasi ai limiti dell’indie pop suonato. La voce della cantante Anouska Sokolow è senza dubbio uno degli highlight di quest’album, e in generale della band: graziosa ma decisa, elegante ma anche capace di interpretare l’autoironia in modo più che credibile -lo si sente in Female Lead (il racconto di una tinta ai capelli finita male), in Young Looking (“I know that I look seventeen / I know that I’m no beauty queen / It might come as a surprise that I don’t like being patronised”) o in Creative Jealousy dove si dichiara candidamente gelosa della bravura artistica di tutti i suoi amici e sente di non essere alla loro altezza. Gli Honeyglaze comunque si dimostrano ancora un po’ acerbi, specialmente nella ricerca sonora -diciamo tranquillamente che i brani si assomigliano un po’ tutti- e nella capacità di scrivere pezzi memorabili -tolta la bellissima Shadows, il restante pacchetto della tracklist si accontenta di risultare gradevole senza trovare (quasi) mai la melodia perfetta o il passaggio che resta in testa. Ma è un difetto che ci sta ampiamente, specie se consideriamo che la band esiste da poco più di due anni. Le basi per fare bene ci sono tutte, e intanto possiamo goderci qualche bella canzone come Shadows e Female Lead, senza sottovalutare la lunga chiusura di Childish Things.
Alice Robber – Dancing Sadness
(Radar Label, 29 aprile 2022)
Di questi tempi -pare quasi strano dirlo- fa sempre piacere sentire artisti italiani che riscoprono l’inglese e cantano nella lingua d’Oltremanica invece che farsi risucchiare dal vortice di “patriottismo” che ha inghiottito il panorama musicale contemporaneo nel nostro Paese. Alice Robber debutta con questo EP di sei canzoni, fuori per la neonata Radar Label, la costola discografica di Radar Concerti. Così come per la sezione booking, Radar è sempre molto attenta a scovare progetti alternativi meritevoli nel sottobosco nostrano, e quella fatta con Alice Robber sembra l’ennesima ottima pescata. Dancing Sadness è un EP piacevolissimo da ascoltare, dove i suoni spaziano con un’apprezzabile varietà tra il synthpop con richiami al mainstream dei primi anni 2010, il pop rock dove le chitarre rivaleggiano con i synth, e una certa dose di funky che rende il tutto ancor più ballabile. È un lavoro di facile ascolto e di facile approccio, ma non per questo dozzinale; anzi, l’immediatezza e la godibilità istantanea dei brani sono proprio il punto di forza di Dancing Sadness, perché sono ottenute con un songwriting intelligente e fresco, che permette ad Alice di esprimere sé stessa e la propria personalità in ognuno dei sei pezzi. È insomma un EP fatto per “ballare via la tristezza”, come dichiarato dall’artista stessa, e in questo riesce perfettamente nel proprio scopo.
RFC – La parte più vera
(Maninalto!, 6 maggio 2022)
Finalmente il nuovo album degli RFC. La formazione ska-punk casertana, fra le principali band della scena punk rock italiana degli ultimi vent’anni, torna a distanza di quasi dieci anni con questo La parte più vera, fuori per Maninalto! I pezzi sono principalmente in italiano con qualche sconfinamento nell’inglese (vedi With Me o parte di Revolution), oltre al dialetto veneto e campano in Festa che vede la partecipazione ovviamente ignorantissima dei Rumatera -ed è, manco a dirlo, la canzone più divertente dell’album. Tromboni e ritmi ska si fanno sentire, ma ci sono anche pezzi più diretti e punk rock classico (come appunto With Me). Alcuni dei singoli de La parte più vera sono davvero trascinanti e potrebbero tranquillamente diventare degli instant classic nei DJ set rock; parliamo specialmente di Revolution e di Fuori dal coro, ma è un discorso che potrebbe applicarsi anche a canzoni come Vorrei dirtelo e Il vuoto (ma solo nella sua versione full band). Insomma, La parte più vera è una bomba accattivante, trascinante e molto punk, specialmente quando non si esagera con i tromboni.
Lizi and The Kids – Keep Walking
(Maninalto!, 11 maggio 2022)
Otto brani veloci e diretti, con chitarre che fanno venir voglia di andare in skate tra le palme, ritornelli megacatchy e strofe melodiche. Non stiamo parlando del nuovo album dell’ultima band messa sotto contratto da Fat Wreck Chords, ma del secondo di disco di Lizi and The Kids, progetto italianissimo (di base in Umbria) di Maninalto! Records, giunto al secondo album full length dopo Go Hard or Go Home del 2021 e l’EP Life’s Too Short for Guitar Solos del 2018. A dire il vero un po’ di California (anzi, parecchia California) nell’album c’è: il disco infatti è stato registrato a Los Angeles sotto la guida dell’ex Guns ‘N Roses Gilby Clarke (che suona anche un paio di assoli di chitarra), e della città americana parla esplicitamente nel pezzo di chiusura Broadway & 7th, l’unico momento dove i ritmi del disco si abbassano per una ballad tra l’emo e qualche vibe da Old West. Il sound di Keep Walking è principalmente quello punk rock, che potrebbe ricordare band quali The Bombpops e Teenage Bottlerocket, ma qua e là troviamo anche spunti più vicini al pop punk dei primi 2000 e addirittura qualche sconfinamento nell’emo 2000s, come si sente nella più oscura Wrong Side. Otto tracce non sono tante, ma sono il giusto per potersi godere quest’album appieno senza mai stancarsi e senza dover ricorrere a del filler per raggiungere la soglia mentale delle dieci canzoni.
Roberto Quassolo – Il fabbricanuvole
(LaPOP, 11 maggio 2022)
Preceduto da alcuni singoli come Anime alla deriva, Sole triste, La quinta stagione e Invisibile, ecco finalmente il primo disco da solista di Roberto Quassolo. Il cantautore pavese propone “un viaggio introspettivo a tratti autobiografico” fatto di nove tracce quasi tutte di durate importanti, e del resto siamo in presenza di un disco rock cantautoriale, non pensato per rincorrere la playlist Spotify all’ultimo grido o la rotazione radiofonica. Le canzoni portano con sé il cuore e l’anima di Roberto, e lo si sente in primis nel cantato che è intenso e carico di sentimento ma con tutta la delicatezza che serve per non sfociare nel melodrammatico. La voce di Roberto è cristallina, non potente ma elegante, le si potrebbe anche dare qualche anno in meno di quelli che l’artista dichiara sulla propria carta d’identità. I suoni risentono di due influenze principali: c’è quella -forse inevitabile- della musica italiana, tanto “cantautoriale” nel senso classico del termine quanto rock, così come di certo pop rock “da stadio” i cui esponenti nostrani principali sono attualmente i Negramaro (la si nota in pezzi come Invisibile, Eppure sei… ma anche Come mi vedi); e c’è quella più americana, da country rock, folk rock e rock classico a stelle strisce che Roberto tira fuori in brani quali Sole triste, Controcorrente e Anime alla deriva. Nutrita la schiera delle ballad (o meglio delle rock ballad, perché le chitarre ariose ci sono sempre), che però non fanno decelerare il ritmo del disco, anzi ne esaltano ulteriormente le tempistiche e le qualità d’autore. Una “prima prova” (se così si può definire, vista la lunga esperienza di Roberto in band) assolutamente di livello, perfetta per l’ascolto in cuffia ma anche -immaginiamo- per il godimento da sotto un palco.
Frambo – Touché
(La Clinica Dischi, 13 maggio 2022)
Secondo EP per Frambo, giovane talento della scuderia La Clinica Dischi, dopo l’esordio discografico con Routine del 2021. Touché è un lavoro di cinque pezzi, conciso e dritto al punto ma coloratissimo, tra il verde acceso, il rosso e il color panna ma passando anche per varie altre tonalità nel mezzo. Ai primi due colori appartengono sicuramente i brani che aprono e chiudono l’EP: Karma e Perdonami -quest’ultima cantata insieme al compagno di etichetta Loomy- sono brani upbeat, catchy, di un pop ritmato e decisamente mainstream, con vocals carichi a palla di autotune, un po’ alla Achille Lauro se vogliamo; ma possiamo far rientrare nel gruppo anche la seconda traccia, Vaniglia, che è molto meno ritmata ma ugualmente stimolante a livello visivo e sonoro con le sue strofe stile Laila Al Habash con tanto di pianoforte a tenere il ritmo e un ritornello più spazioso con dei synth ariosi. Al gruppo dei colori più tenui facciamo appartenere invece i brani di mezzo: Terrazzo assume caratteri vagamente R’n’B, molto rilassata, quasi una canzone da ascoltare quando sei high (sarà l’influsso del testo che ci suggestiona); Non mi spingere è un pochino più upbeat ma non esageratamente, e spinge anch’essa nella direzione del pop mainstream a cui quest’EP vuole ardentemente tendere -forse in maniera anche un po’ eccessiva per un artista che mainstream non lo è (ancora). Touché resta un disco immediato, alla portata di tutti, forse troppo spinto sull’aspetto dell’accessibilità a discapito della ricerca artistica, ma sicuramente divertente e un ascolto senza troppe pretese che si adatta a un po’ tutte le situazioni, dal contesto sociale di festa all’ascolto da soli nei momenti in cui vogliamo della musica che ci faccia prendere bene.
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